La montagna chiama

Èil 13. Luglio. Sono sdraiato nella mia tenda. Cerco di addormentarmi, ma la mia mente è confusa da tante domande. I miei pensieri vanno sempre al Nanga Parbat, alla parete Rakhiot. Le scariche di ghiaccio mi procurano paura. La responsabilità mi procura ansia, pensando frequentemente a casa, ai miei cari. E ancora: Siamo nati e un giorno moriremo. In mezzo c’è la vita. Io la chiamo il mistero, del quale nessuno di noi ha la chiave. Siamo nelle mani di Dio: se ci chiama dobbiamo andare. Sono cosciente che l’opinione pubblica non è del mio parere, poiché se veramente non dovessimo più ritornare, sarebbero in tanti a dire: Cosa sono andati a cercare là? Ma chi glielo ha fatto fare?. Una sola cosa è certa: chi non vive la montagna, non lo saprà mai! La montagna chiama!. Sono le ultime parole scritte da un uomo che, nella vita, cercava vie esclusive. I sognatori e i bambini sanno dare forma alle nuvole. Karl era uno di quegli alpinisti che sanno intuire, dove altri non vedono nulla, disegni ed ombre persi tra le pieghe d’immobili rocce e ne fanno la traccia per la loro impresa. Lui, infatti, entrato nella storia dell’alpinismo per aver scalato, senza ossigeno, Everest e K2 in meno di due mesi, non cercava i record, non aveva alcun interesse a collezionare tutti gli ottomila. Le sue imprese sono state altre. Unterkircher amava sbrogliare i problemi non ancora risolti delle grandi pareti del mondo: il versante nord del Genyen, 6240 metri, in Cina; lo spigolo sud del Jasemba, 7350 metri, al confine tra Nepal e Tibet; la parete nord del Gasherbrum II (8035 metri). Tutte vie dove nessuno prima era mai riuscito. Anche per la sua ultima impresa aveva scelto un percorso inviolato: del già infernale Nanga Parbat, la montagna assassina (duecento hanno tentato di scalarla, oltre sessanta non sono tornati) aveva adocchiato da tempo la terribile parete Rakhiot. Una slavina, mentre guidava i compagni, Nones e Kehrer, lo ha sepolto lì, per sempre, in un crepaccio. Ogni tanto parlavamo della morte. Lui sentiva che una volta o l’altra sarebbe rimasto sulle montagne. Almeno so che adesso è nel posto che amava più di tutti. Silke, la moglie di Karl, è una donna minuta, semplice, forte. Crescerà i figli, Alex, Miriam e Marco di sei, tre e un anno, spiegando loro che il loro papà è forte, che ha già raggiunto la vetta, che è volato in cielo, che sarà loro vicino come quando li portava in braccio e raccontava loro le favole per addormentarli. Gli pesava infinitamente stare lontano da casa. Un paio di mesi fa, al congresso di Sportmeet, incantando tutti con le sue parole e le sue immagini, spiegava: Nell’arrampicare sperimento spesso la mia felicità: credo che tutto nella vita abbia un senso, anche se a volte mi chiedo perché sono lì, chi me lo fa fare. Ma poi, una volta tornato a casa, dopo due settimane sono già lì a pensare quale sarà la prossima avventura. Amava la natura: camminando, sciando, arrampicando riusciva a sentirsene parte. Cercava ogni volta di capire sempre meglio quale fosse il suo posto in quel mosaico misterioso ed affascinante. Era esperto e prudente, sempre pronto ad imparare. Da tutto e da tutti. Con me si lamentava di non saper comunicare: chissà se lo pensava davvero. Non erano le parole a farlo un maestro del dire qualcosa, ma i suoi silenzi, il suo continuo interrogarsi e mettersi in discussione, la sua profonda vita interiore che colpiva chiunque lo incontrasse. Karl era un uomo che, nella vita, cercava la vetta più alta. E di questa sua ricerca ti faceva partecipe, ti coinvolgeva, ti trasmetteva l’inquietudine e la speranza, ti accendeva in cuore sempre nuove frontiere. C’eravamo lasciati così: Al ritorno dal prossimo ottomila ti vengo a cercare: in Tibet ho visto tanta povertà, tanti bambini che non hanno nulla. Dobbiamo fare un progetto per loro. Prima di una delle ultime spedizioni era andato al monte Kailash, la montagna sacra, in un monastero vicino al lago Manasaravar: Un’esperienza bellissima che ho potuto condividere con amici: ho acceso una candela pregando alle spedizioni prossime. Ancora una volta mi sono chiesto il perché di dover andare lì: se tutto, nella vita, ha una spiegazione spero proprio di trovarla, prima o poi. C’è una frase del Dalai Lama che mi guida: Vivere in modo giusto e sereno è possibile solamente se siamo consapevoli che prima o poi moriremo.

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