La minaccia nascosta

“Il Kosovo di oggi, a tre anni e mezzo dalla conclusione della prima “guerra umanitaria”, si presenta agli occhi della delegazione della commissione Diritti umani del Senato italiano, lì recatasi nei giorni scorsi, come un enorme campo di sabbie mobili, dove la fatica di un passo viene rapidamente annullata dal risucchio di un terreno incerto e infido. Il sentimento prevalente che continua a dominare è la paura. Se un serbo si ammala e ha bisogno di un ospedale, o riesce a ricoverarsi all’ospedale serbo di Mitrovica o altrimenti rinuncia al ricovero, perché ha paura di non uscirne vivo. E ovviamente lo stesso vale, al contrario, per un albanese. “Un’economia al collasso con interi settori produttivi bloccati e una disoccupazione al 70 per cento; l’80 per cento del prodotto interno lordo frutto delle attività del crimine organizzato; 230 mila serbi ancora sfollati e sul cui ritorno oggi nessuno è pronto a scommettere. “122 chiese, monasteri e luoghi di culto ortodossi sono stati fatti saltare in aria o sono stati distrutti, mentre altri hanno bisogno di presidi militari permanenti per evitare che anche essi vengano presi di mira”. Così il settimanale Vita, il 20 marzo scorso, sulla situazione ancora profondamente drammatica nei Balcani. Un dispaccio dell’agenzia d’informazione Misna ci porta in Africa: “Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha esteso il mandato dei “caschi blu” presenti in Sierra Leone per altri sei mesi, fino al 30 settembre, accogliendo l’appello lanciato nei giorni scorsi dal segretario generale Kofi Annan. Il massimo responsabile del Palazzo di Vetro di New York aveva spiegato ai quindici paesi membri del Consiglio che non è ancora venuto il momento per il contingente di peacekeeper (militari impegnati a mantenere la “pace”) di lasciare il paese africano, teatro per dieci anni di una sanguinosa guerra civile”. Gino Strada, leader di Emergency, descrive nel suo libro Afghanistan anno zero gli effetti una delle conse- guenze più perverse di ogni dopoguerra: “Khalil è saltato su una mina nella regione di Bahmian ed è qui da due giorni. Avrà sei anni, e non avrà mai più la vista, perché la mina gli ha strappato gli occhi, e una parte del viso e quasi tutte le dita delle mani. Si lamenta con una vocina flebile, che esce da una bocca ustionata sotto un cumulo di bende sporche. Difficile guardare, perché ci vuole forza, e io sento di non averla mentre guardo le mie scarpe confortevoli e asciutte, su un pavimento lercio”. Amnesty International denuncia uno dei trattamenti più comuni riservati a chi viene arrestato: “”Ci hanno tutti ammanettati e fatto sedere su un terreno sassoso. Non ci hanno dato cibo e quando abbiamo chiesto dell’acqua ce l’hanno rovesciata addosso. Le manette erano strette e quando al nostro arrivo ci hanno tolto la benda degli occhi ho visto alcune persone con le mani nere e gonfie. Abbiamo detto ai soldati che le manette ci tagliavano i polsi, ma loro ci hanno risposto che non c’era alcuna alternativa. Faceva molto freddo e alcuni di noi indossavano solo una maglietta ed erano senza scarpe”. “Majdi Shehadeh era uno degli 800 palestinesi arrestati al campo pro- fughi di Tulkarem in Cisgiordania”. Altra latitudine, identico cinismo. Lo documenta l’agenzia Misna: “Il conflitto interreligioso che per tre anni ha insanguinato l’arcipelago indonesiano delle Molucche è finito da diversi mesi, ma adesso si apre il problema degli sfollati. Stanno infatti sorgendo difficoltà e fraintendimenti nella gestione del rientro a casa di alcuni gruppi di profughi. A marzo, per esempio, 1108 famiglie sarebbero dovute tornare da Ambon a Tobelo, la loro terra nelle Molucche settentrionali. Di fatto però, nonostante gli sfollati fossero pronti a partire e molti di essi avessero già disposto i propri averi sul ciglio della strada, nessuno se ne è occupato e i profughi non hanno potuto raggiungere i luoghi di origine. Nel frattempo però, essendo considerati in partenza, le autorità non hanno più fornito loro le periodiche razioni di cibo. E non finisce qui. Dieci, cento mille infinite storie scritte o ancora da scrivere. Un copione di morte, odio, terrore. Di generazione in generazione. Perché quando arriva finalmente il “cessate il fuoco”, la guerra continua. E non perché ci siano dei soldati disobbedienti, ma perché ce ne sono stati di troppo obbedienti che hanno già preparato il seguito. È fatto di mine pronte ad esplodere ad ogni passaggio; di armi chimiche, diossina, uranio impoverito in grado di assicurare alle future generazioni lo stesso trattamento inflitto ai loro padri; di bombe a grappolo inesplose; di odio fra etnìe; di terrore gli uni nei confronti degli altri; di bambini figli non voluti del nemico; di sguardi che hanno perso per sempre la capacità di vedere altro se non la morte piombata un giorno drammaticamente nella propria famiglia, nel proprio villaggio. Sono fratture talora insanabili, per le quali non serve e non basta stanziare fondi. Che ti lacerano in maniera definitiva. Ponti crollati per sempre, costruzioni senza possibilità di ricostruzione, pozzi il cui fumo brucia ancora sotto le narici. Se la storia è maestra di vita, cosa ci ha insegnato? Che la guerra non finisce mai. Ma non sembra che ce ne importi tanto quando andiamo al fronte, convinti che sarà una guerra “lampo”, colpiti da quella malattia inguaribile che si chiama odio, il cui virus sembra avere una grande forza di contagio. E così, prima ancora che uccidere, siamo noi stessi uccisi dentro. Come si sentiranno i soldati che per mestiere devono seminare morte dal cielo, via mare, sulla terraferma? Neanche Hiroshima e Nagasaki ci hanno insegnato niente. Come pure il Vietnam dove, per effetto della diossina usata dagli americani per stanare i vietcong, continuano ancora oggi a nascere bambini le cui sembianze ci vuole molta fantasia per definire umane. Quanti di questi reduci hanno conservato intatto il ben dell’intelletto? O non sono piuttosto impazziti al solo pensiero di quello che hanno fatto? E i loro figli, come nascono? Ci siamo evoluti anche nel modo di condurre le guerre e così siamo in grado di colpire non solo obiettivi militari ed infrastrutture ma di mirare direttamente all’uomo. Al suo corpo e alla sua psiche. Di assicurarci che l’acqua che berrà e il cibo che mangerà siano contaminati al punto giusto. E di non pensare solo al presente ma anche al futuro. E poi le chiamano persino intelligenti queste bombe. Terribile, semplicemente terribile! “Pensavo che la guerra l’avrei studiata esclusivamente sui libri di storia. Non immaginavo che l’avrei vissuta in diretta televisiva” dice una ragazza quindicenne. Sì, a guardare le immagini che ci giungono dall’Iraq o ad immaginarsi le altre che invece proprio non ci arrivano da tutti gli altri conflitti cosiddetti dimenticati tuttora in corso nel mondo, si fa fatica a credere che siamo nel 2003. Non a caso si fa strada una proposta: far diventare il 16 marzo Giornata europea contro l’uso di armi chimiche, in ricordo della strage di Halabaja, nel Kurdistan iracheno, del 16 marzo 1988. Partita dal presidente del consiglio regionale della Toscana, ha già trovato l’adesione di Catalogna, Paesi Baschi, Irlanda del Nord e Galles. Piccoli passi, certo, ma l'”insurrezione popolare” contro la guerra (e i suoi effetti duraturi) passa anche da qui. Questa volta non possiamo dire di non aver visto. Almeno qualcosa, ma è quanto basta!

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