La guerra non risolve i problemi

Comprensibile lo stato d’animo del popolo statunitense, ferito negli affetti, nei sentimenti e nella sicurezza nazionale. I sondaggi più recenti segnalano che il 67 per cento dei cittadini Usa approva la condotta del presidente Bush nei confronti dell’Iraq e altrettanti condividono l’uso della forza armata contro Saddam Hussein. Da settimane, ormai, si fa martellante la campagna di persuasione circa l’inevitabile necessità di un attacco bellico. I mezzi di comunicazione internazionali, ma anche quelli italiani, rischiano spesso di prestarsi al ruolo di cassa di risonanza, senza alimentare un sufficiente dibattito che tenga conto anche solo degli insegnamenti degli ultimi decenni: che ogni conflitto, oltre che sanguinoso, si rivela inutile. Le prese di distanza di alcuni paesi europei sul ricorso ad un attacco armato non ha frenato, almeno per il momento, le convinzioni del presidente americano. Le 33 cartelle di cui si compone il documento presentato dall’amministrazione Bush al congresso americano e che prospetta la nuova teoria della guerra preventiva non ha convinto i giuristi. Certo, dopo l’11 settembre è mutata la tipologia del nemico ed è cambiato l’obiettivo da colpire, perché il terrorismo non è localizzabile come lo era l’avversario tradizionale. Ma teorizzare che un singolo paese possa decidere in modo unilaterale sulla pace e sulla guerra è un fatto che scavalca uno dei princìpi fondamentali che regolano i rapporti tra le nazioni, sancito dall’art. 24 della Carta dell’Onu. La grande conquista sta in questo: gli stati membri delle Nazioni Unite hanno conferito al Consiglio di sicurezza il compito del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, e hanno deciso che il Consiglio di sicurezza agisca a loro nome. Si potrà dire che il Consiglio è da riformare. Ma resta da salvaguardare il fondamento: che, cioè, gli stati – come qualche secolo fa i singoli cittadini -, hanno rinunciato a farsi giustizia da soli, affidandone il compito ad una struttura specifica. Princìpi sacrosanti, ma Saddam se ne fa un baffo. Da 12 anni la diplomazia non riesce ad ottenere nulla dal baffuto rais. Peggio: ha preso sistematicamente in giro la comunità internazionale. E adesso, dopo aver dato il proprio assenso all’ingresso degli ispettori Onu, alternerà via via dinieghi a condizioni assurde. Così parlano quanti, edotti dal passato, non danno più una linea di credito a Saddam. Tutto vero. Ma per noi non possono bastare queste costatazioni a scatenare una guerra, le cui conseguenze saranno comunque nefaste. Il problema non è solo dire: sì o no alla guerra. Si tratta di guardare al pianeta nella globalità dei suoi problemi e non limitarsi a combatterne qualche effetto. Su questi temi, come pure sul contenzioso con Saddam, va onestamente avanzata una chiamata in correità – direbbero i penalisti -. Nel senso che le questioni sono state polarizzate sugli Stati Uniti, mentre le responsabilità coinvolgono tanti altri paesi, quelli dell’occidente e – per l’Iraq – parte dello stesso mondo mediorientale. Al momento, l’Onu non può vantare molta autorevolezza, ma sappiamo bene che l’Organizzazione funziona nella misura in cui le permettono di agire. Alla guerra ci sono comunque sempre alternative. E così è necessario il più solidale impegno, a fianco delle Nazioni Unite, di tutti i paesi capaci di esercitare una qualche influenza per evitare il conflitto armato con l’Iraq e salvaguardare pace e sicurezza. Non è solo in nome di istanze etiche o di convincimenti religiosi che la richiesta sale. E’ piuttosto in ossequio alla comune condizione di fratellanza con le popolazioni civili. Queste ultime, negli ultimi dieci anni, sono rimaste sempre più coinvolte dalle azioni di guerra, a dispetto di tutte le bombe “intelligenti” e gli interventi “chirurgici” militari. pace bisogna volerla “La pace è possibile, ma bisogna volerla. Noi la vogliamo “, questa la frase che Ernesto Olivero, fondatore del Sermig (Servizio missionario giovani) ci ha lasciato come sintesi del primo appuntamento mondiale Giovani della pace, che ha visto radunarsi a Torino, il 5 ottobre, circa 40 mila giovani, da varie parti del mondo. La manifestazione è stata dedicato al cardinale vietnamita Van Thuan, recentemente scomparso, che trascorse tredici anni in carcere. Un gioioso esercito di pacifici giovani ha invaso il severo centro storico cittadino, tra le austere piazze San Carlo e Castello, in un allegro clima multietnico e multirazziale. Accompagnati dalle coloratissime bandiere della pace, i partecipanti hanno ascoltato testimonianze, cantato e ballato, collaborato ad animazioni e stand (tra cui quello dei “Giovani per il mondo unito”, con proposte in campo sociale ed economico), pregato ecumenicamente e consumato “il pranzo dei popoli”, a base di una modica quantità di riso, pari a quanto deve bastare come unico pasto giornaliero in molte zone del mondo. Il cosiddetto “G8 alla rovescia”, dove gli adulti hanno ascoltato testimonianze di giovani da otto diversi paesi, ha preceduto la lettura di un documento che sarà presentato all’Onu, frutto del lavoro di riflessione che ha preceduto il convegno. Chiare le varie istanze per sostenere la pace: accoglienza, equilibrio nella distribuzione delle risorse, diritto ad un’occupazione dignitosa, sostegno di ogni iniziativa per portare speranza, salvaguardia dell’ambiente, formazione di giovani capaci di assumersi responsabilità politiche ed amministrative. Senza dimenticare il riconoscimento sia dell’acqua potabile come risorsa- patrimonio dell’umanità, sia dell’accesso all’acqua stessa quale diritto inalienabile della persona e delle collettività. Tra le proposte, la realizzazione di un fondo per mille borse di studio, destinate a favorire la frequentazione scolastica nelle zone più disagiate e l’istituzione di un’agenzia dell’Onu per i giovani, nella quale i giovani siano i protagonisti. Ricordava uno slogan: “Se i giovani falliscono, abbiamo fallito tutti quanti!”. Attenti ascoltatori sono stati i rappresentanti delle istituzioni, tra cui il sindaco della città, Chiamparino. Parole di sostegno dall’arcivescovo, cardinale Poletto, che ha portato la benedizione del papa. Un grande concerto ha chiuso la giornata all’ “Arsenale della Pace”, un antico opificio militare, recuperato dal suo degrado, che ospita la sede del Sermig. Una sorta di moderno monastero metropolitano, luogo di accoglienza e di dialogo, che da quasi vent’anni rappresenta un punto di riferimento per la città. Buonuomo tutto da perdere un attacco armato “Da un’eventuale guerra all’Iraq possono derivare conseguenze negative difficilmente controllabili non solo per le popolazioni della zona ma per gli equilibri mondiali, compreso l’occidente”, avverte Vincenzo Buonomo, docente di diritto internazionale all’università Lateranense di Roma. Se le ispezioni dell’Onu in Iraq non fugassero tutti i dubbi, quali provvedimenti potrebbero prendere le Nazioni Unite per evitare un attacco armato? “Di fronte ad una disattesa delle proprie risoluzioni, l’Onu può attivare, prima di tutto, l’uso della forza non armata, per esempio rafforzando le misure d’embargo o può “isolare” il governo interessato. In seconda istanza, l’Onu può intraprendere “ogni azione necessaria”, usando i “caschi blu” o conferendo ad un gruppo di stati il compito di intervenire, come avvenne per il Kuwait. Ma solo per far rispettare le sue risoluzioni. Non può in alcun modo dare il mandato di rovesciare il regime di Saddam Hussein. Significherebbe ingerenza negli affari interni di un paese, e questo va al di là delle competenze delle Nazioni Unite. Ma è chiaro che rispettare le risoluzioni vuol dire per il governo iracheno accettare non solo le ispezioni ma anche l’eliminazione di tutte quelle situazioni che potrebbero portare alla costruzione d’armamenti o comunque mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale”. Bush ha parlato di guerra preventiva. Ma ci sono fondamenti giuridici? “La guerra preventiva non trova una giustificazione dal punto di vista giuridico, né sulla base del diritto internazionale contemporaneo, né nelle regole del diritto di guerra.Ad oggi conosciamo soltanto la “guerra difensiva”, conseguenza della legittima difesa. “Nel caso di una guerra preventiva verrebbe meno il principio della buona fede, cardine dei rapporti internazionali. In questo momento, Iraq e Usa hanno perso il riferimento al principio della buona fede. Ne è prova il quotidiano modificarsi delle prese di posizione: accuse mosse e successivamente ridimensionate, disponibilità preannunciata e poi rinviata”. Un attacco armato contro Hussein è, secondo lei, il modo migliore per stroncare il terrorismo? “Il terrorismo internazionale, che in quell’area trova spazi, potrebbe invece rafforzarsi. Penso soprattutto alla presa che potrebbe avere sulle popolazioni locali, che, amanti o meno la figura di Saddam, si troverebbero a pagare le conseguenze di un ulteriore conflitto. E, attenzione, non c’entra l’elemento religioso. L’eventuale appoggio popolare al terrorismo sarà causato dalla drammatica penuria di mezzi di sussistenza che una guerra causerebbe “.Contraccolpi pesanti nel rapporto tra occidente mondo islamico? “Il rischio è una demonizzazione reciproca, con conseguenze difficili da prevedere. Certo, che se l’obiettivo un’eventuale guerra è anche quello di fermare il terrorismo e garantire ai paesi occidentali condizioni di maggiore sicurezza, in realtà l’effetto che deriverebbe da un conflitto armato sarebbe con molta probabilità proprio opposto a quello auspicato”. E allora perché Bush permane su una posizione tanto radicale? “L’interrogativo riguarda la struttura della Comunità internazionale: è possibile che un paese si proponga come l’autorità mondiale e decida chi è il nemico e quando colpirlo? Penso al diritto internazionale: per gli stati verrebbe meno il principio della parità, dell’uguaglianza, cadrebbe ogni riferimento alle rispettive libertà e anche i piccoli, ma significativi passi verso una fraternità tra i membri della famiglia umana sarebbero d’un tratto cancellati. “Non va comunque dimenticato che l’attuale amministrazione Usa è nata senza preoccuparsi troppo degli obiettivi di politica estera.Tutta la campagna elettorale Bush è stata incentrata unicamente sui temi interni senza troppo pianificare obiettivi di politica estera. “Un esempio? L’iniziale presa di distanze dal conflitto in Terra Santa, mentre poi è avvenuto contrario”. Vescovi USA difficile giustificare il ricorso alla forza armata “La comunità internazionale deve mobilitarsi per assicurarsi che l’autorità irachena cessi la repressione interna, termini le sue minacce ai paesi confinanti, ponga fine al supporto del terrorismo, abbandoni gli sforzi per lo sviluppo di armi di distruzione di massa ed esegua le risoluzioni dell’Onu”. Non nutrono dubbi i vescovi statunitensi su quanto si deve fare nei confronti di Saddam Hussein. Serie perplessità sono invece avanzate quando si tratta di ricorrere alle armi. Il presidente della conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, mons.Wilton D. Gregory, in una lettera personale al presidente Bu- sh fa presente che i presuli “trovano difficoltà a giustificare l’estensione all’Iraq della guerra al terrorismo”. Prima deve esserci “un’adeguata evidenza del coinvolgimento dell’Iraq all’attacco dell’11 settembre” o “di un’imminente azione di natura grave”. E soprattutto, avverte mons. Gregory, la guerra contro l’Iraq potrebbe “provocare proprio quegli attacchi che vorrebbe prevenire ” e scatenare “imprevedibili conseguenze non solo sull’Iraq ma per la pace e la stabilità nel Medio Oriente”. A Bush viene ricordato di avere a cuore i cittadini iracheni. “L’uso massiccio di forze militari – sostiene il presidente dei vescovi cattolici in Usa – per eliminare l’attuale governo iracheno potrebbe avere effetti incalcolabili sulla popolazione civile che già ha sofferto moltissimo dalla guerra, dalla repressione e da un embargo debilitante”. Per l’autorevole arcivescovo di Washington (D.C.), il card.Theodore McCarrick, “gli americani hanno ricordato con chiarezza ai loro leader che hanno l’obbligo morale di ricercare soluzioni non militari”. Egli ha ribadito che “la lotta contro il terrorismo si potrà vincere solamente se si affrontano con onestà le difficoltà e le ingiustizie che affliggono miliardi di persone nel mondo”. In particolare, “abbiamo incoraggiato il governo a considerare alcune situazioni, tra le quali e prima di tutto quella di una soluzione giusta per la Terra Santa. Quello che sta succedendo lì è una ferita alla pace mondiale “.

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