La Fracci veste Amletto

Impresa ardua trasporre in danza Amleto. Ancor più se a calarsi nel ruolo del principe di Danimarca è una donna. Dopo l’Orlando di Virginia Woolf, un’altra sfida per Carla Fracci interprete di Amleto principe del sogno (da un’idea di Beppe Menegatti con le coreografie di Luc Buy, per l’Opera di Roma). Siamo alla fine degli anni Sessanta. Da un’enorme vetrata lo sfondo di New York. La musica è quella appositamente scritta da ?Sostakovic. Affiancata da interpreti tutti maschili – com’era nell’epoca elisabettiana – la Fracci impersona, ad apertura di sipario, Judith Anderson, l’attrice americana che si accingeva ad interpretare a 71 anni il celebre personaggio. Confortata dall’alcol si addormenta e sogna. Diventata Amleto, vede sfilare come fantasmi a convegno i tanti Amleti che hanno segnato le mode artistiche. Essi ritorneranno nel finale, dopo lo svolgersi della vicenda scespiriana, accomunati dalla morte che infliggeranno al re usurpatore, mentre il bianco fantasma del padre di Amleto, spesso presente sulla scena, si allontanerà portando ancora in braccio suo figlio. Ed è l’amore perduto del padre, l’immagine ed il tema ricorrente in questo spettacolo denso di idee attinte a suggestioni del Novecento, in particolare al clima espressionista. Deludente nella coreografia – tranne l’intensa sequenza di Ofelia nel duetto col fratello Laerte – il balletto risulta spezzettato nei movimenti. Vive invece di scenografie suggestive e di bellissimi costumi. Ma soprattutto ha rivelato la bravura del giovane Alessandro Riga nel ruolo di Ofelia, e confermato quella di Alessandro Tribuzi. La montagna dei Kataklò Il gesto sportivo dilatato nelle sue capacità espressive fino a trasformarlo in danza. È la poetica dei Kataklò, il gruppo fondato dall’ex ginnasta Giulia Staccioli e da altrettanti campioni germinati dalle più severe discipline atletiche. Un caleidoscopio di danza, acrobazie e body art, insieme a humour e rigore stilistico, che ricorda gli americani Momix nelle cui file si è formata la Staccioli. Amati dal pubblico, eccoli ora con un altro sicuro successo: Up. Dedicato alla montagna, lo spettacolo fa di essa una metafora per esprimere la tensione dell’uomo a salire in alto, a superare i propri limiti. Fino alla conquista finale: la natura stessa che gli si mostra per un’elevazione anche spirituale. Idee trasformate dall’esuberante fisicità dei danzatori in quadri viventi. Sostenuti da un fiume di musica – da Marie Boine a Goran Bregovich, da Janet Jackson a Sting – e con l’ausilio di corde, ganci, imbracature, sci, essi si trasformano in cristalli di ghiaccio, fiori, tronchi d’alberi, farfalle, animali. Tra nebbie e rumori d’acqua, attraversano ponti, sfidano le bufere, si arrampicano sulle pareti. Finché ogni movimento si fa più etereo: forma sospesa nel vuoto, fluttuante. Da diventare, sulle note di un canto gregoriano elaborato dal sax di Jan Garbareck, quasi una preghiera. Teatro monologo a più voci Alcuni lo ricorderanno nel Gabbiano di Nekrosius, e come Mercuzio nel Giulietta e Romeo di Serena Sinigaglia. Diretto ancora da quest’ultima in Natura morta in un fosso, Fausto Russo Alesi, fresco del Premio Ubu come migliore attore under 30, dimostra talento da vendere. Scritta su misura da Fausto Paravidino – ventiseienne autore emergente – la pièce offre all’attore palermitano una galleria di personaggi da far vivere con acutezza di segno e voce da affabulatore, senza cadere nel trasformismo. Costruisce il monologo sulle dissolvenze dei ruoli al semplice abbassarsi delle luci e con minimi cambi d’abito, per raccontarci, da menestrello contemporaneo, un fatto di cronaca nera. Una storia di ordinaria violenza, credibile perché attinta dalla realtà: il girotondo di un campionario d’umanità Fausto Russo

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