La diplomazia dell’umiltà

L’annuncio di due giorni fa e la firma dell’accordo tra il Vaticano e Pechino sulla nomina dei vescovi ha mostrato che era possibile un’intesa, se si cercava davvero, con coraggio e mitezza, di affermare ciò che unisce piuttosto che ciò che divide

In questi cinque anni di pontificato di papa Francesco, la Cina è stata costantemente un punto di riferimento, con una grande attenzione della preghiera e del cuore di questo papa, che ha scelto la via diplomatica dell’umiltà per avvicinarsi a questo singolare e immenso continente di popoli e di culture.

Questa diplomazia umile nasce con papa Giovanni e oggi, con il testo firmato da Antoine Camilleri, sottosegretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati, e dal signor Wang Chao, viceministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese (leggi anche Storico accordo fra Vaticano e Pechino), arriva al suo compimento, a sigillare quello che si è sempre desiderato nella preghiera e nell’azione. Due figure apparentemente di seconda fila, in realtà due perfetti rappresentanti della diplomazia dell’umiltà.

Papa Francesco ha perseguito con mitezza e determinazione questa diplomazia da Mosca a Cuba, da Israele e Palestina, dalla Siria alle due Coree, alla Colombia, non sempre conseguendo gli stessi risultati, ma certo diventando interlocutore autorevole, in ogni scenario, per la sua diplomazia spoglia e senza interesse.

Il portavoce del papa si è espresso in questo modo: «L’obiettivo di questo accordo non è politico, ma pastorale».

Negli anni ’60, papa Giovanni inaugurò questa diplomazia con il suo appello a Kennedy e Krusciov del 24 ottobre 1962, dove il papa pone il diritto dei bambini, degli anziani a vivere un tempo di pace, mostrando la follia della guerra e la sua irrazionalità. Il papa con il suo messaggio non volle distinguere i buoni dai cattivi, ma pose davanti ai due grandi della terra il diritto delle vittime, il diritto alla pace, il grido che nasceva dal cuore dei poveri. E quell’appello funzionò e mostrò che la pace era possibile, che le vittime erano più avanti dei governanti. Il papa comprese che i popoli erano più avanti dei politici, che era possibile un linguaggio nuovo e una sostanza evangelica nuova, pronta a seminare la pace.

Ecco la sapienza della pace, così presente in questo accordo, in cui non ci sono vincitori e vinti, ma semplicemente dei facitori di pace, che Dio, in ogni angolo della terra, dichiara beati.

Tutto questo ebbe il suo compimento nella Pacem in terris, l’enciclica arrivata alla fine del suo pontificato, che aprì una stagione nuova nei rapporti internazionali, pur in un tempo complicatissimo e difficile.

Il card. Parolin ha così riassunto tutto questo: «Per la prima volta dopo tanti decenni, oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il vescovo di Roma». Un risultato straordinario e per tanti versi insperato, raggiunto da papa Francesco non solo per l’abilità diplomatica dei suoi collaboratori più stetti, ma anche per il suo sguardo ancor più evangelico su questo immenso continente, sulle sue chiese e sui suoi cristiani.

La diplomazia dell’umiltà mostra una forza dirompente nella sua semplicità, piccolezza e provvisorietà. Le sue armi sono la comunione e la pace, la riconciliazione e l’incontro, dove il volto dell’altro pacifica il nostro cuore. Una diplomazia con un grande sguardo spirituale non ha bisogno di grandi mezzi economici e politici per conseguire risultati efficaci. Anzi, è vero il contrario: tanto più è disarmata e tanto più è riconosciuta e confermata dai suoi interlocutori. La forza inerme dell’amicizia è più efficace delle trattative astute e apre alla forza dell’incontro e del dialogo, senza i quali la semina inaridisce e non produce frutto.

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