La Bolivia e l’appuntamento con la democrazia

Dopo dure proteste, il parlamento ha rimandato ad ottobre le elezioni generali. Ma il grande ostacolo per affrontare l’attuale crisi, sanitaria ed economica, oltre che istituzionale, sono le polarizzazioni politiche

 

La democrazia – che di per sé è un bene fragile – suppone che maggioranze e minoranze abbiano chiare le regole scritte del gioco, cioè la costituzione e lo stato di diritto, e le sappiano rispettare sempre, non a secondo delle proprie convenienze. Suppone anche aver compreso a fondo la regola non scritta secondo la quale la parte non può pretendere di essere il tutto. Due principi senza i quali, l’appuntamento con una democrazia qualitativamente matura viene rimandato sine die.

Uno dei grandi problemi politici in Sudamerica è spesso certa tendenza ad approfittare del mandato di governo – anche quando la maggioranza ottenuta sia frutto di circostanze transitorie – per trasformarsi in un progetto egemonico. Il problema è che si finisce per cercare di “colonizzare” lo Stato e di cooptare media e oppositori con l’obiettivo di incamerare voti, ma anche di ridurre la qualità della democrazia perché si punta ad omologare opinioni e ad emarginare chi critica.

Lo si vede nitidamente in Venezuela, dove il governo, illuso di parlare in nome di tutti, non riesce più a vedere una realtà frammentata; oppure in Nicaragua, una situazione simile. È la tentazione del peronismo argentino; con strumenti molto più sofisticati, è quella della destra cilena; è il fattore che ha fatto sì che, nel giro di 7-8 mesi, la Bolivia passasse da una economia in espansione a una profonda crisi. In questi contesti la polarizzazione politica è tale da non consentire di cogliere gli obiettivi del bene comune, subordinati ad una visione che di fatto ignora l’esistenza di minoranze pur se consistenti, una sorta di manicheismo secondo il quale l’avversario è il male assoluto ed il proprio progetto è, ovviamente, il vero bene.

 

Nel caso boliviano, se la legittimità dell’attuale governo di transizione ha un vizio di nascita, la situazione confusa scaturita a novembre, quando Evo Morales fu spinto a dimettersi accusato di brogli elettorali, esiste anche un peccato originale del dimissionario che volle forzare la lettera della costituzione presentandosi per un nuovo mandato quando un referendum e la legge glielo impediva. L’idea di installare un progetto egemonico non permise di cogliere che in realtà i votanti erano scesi dal 60% delle prime gestioni a un risicato 40%.

Oggi, la presidente transitoria Jeanine Áñez, dimentica di rappresentare un settore di forte minoranza nel Paese, cerca in realtà di fare lo stesso e, per questo, di guadagnare tempo. Si spiega così come, per ben tre volte, siano state rimandate le elezioni inizialmente previste per maggio, poi spostate a settembre ed ora al 18 ottobre. Ma il processo è stato complesso e doloroso, perché la decisione del tribunale elettorale di sospendere la data di settembre ha provocato dure settimane di proteste, con picchetti stradali che hanno spesso impedito che arrivassero agli ospedali medicine basilari per combattere la pandemia, che ha colpito – e pure duramente – anche la Bolivia. Le autorità elettorali, hanno infatti uno spazio riservato al legislatore ed è stata necessaria la mediazione della Chiesa cattolica, dell’Onu e dell’Unione europea, per far sì che il parlamento sancisse per legge la data del 18 ottobre, che è quanto stabilisce la costituzione.

 

La ragione di tali rinvii si deve teoricamente alla situazione sanitaria nel Paese che è delicata, con più di 100 mila casi e 4 mila morti su 11 milioni di abitanti. Si è lontani dall’aver appianato la curva, mentre lo stop per la quarantena ha mandato in crisi un’economia che, sebbene registrasse un incremento tra i più alti della regione, era ancora tutta da consolidare in un Paese in arretrato di decenni in quanto a opere di infrastruttura e di servizi basilari, come scuola e sanità, che era faticosamente risalito dagli ultimi posti della classifica dei Paesi poveri.

Ma è anche una situazione che la presidente ad interim crede giochi a suo favore, credendo di far leva sullo scontento generale per evitare un ritorno al potere del partito di Morales, il Mas. I numeri dicono che il 32% della popolazione non dispone di entrate per arrivare a fine mese ed il 52% le ha viste ridursi in parte. Si stima che l’indigenza raggiungerà il 16% della popolazione.

 

Ma lo scontento non ha il Mas come bersaglio, perché il 60% disapprova la gestione sanitaria di Áñez ed il 65% quella economica, lenta e poco efficiente. In vista delle elezioni, Luis Arce, candidato del Mas, ottiene più del 41% dell’intenzione di voto, seguito dal moderato Carlos Mesa, di centro, prossimo al 27%, mentre a destra Áñez – che ha annunciato le sue aspirazioni elettorali – appena supera il 13%. Ma chiunque sia il vincitore delle elezioni di ottobre, il grande pericolo è quello di non riuscire a superare la polarizzazione che convince ciascuno che l’unico mondo possibile sia quello delle proprie idee.

 

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