Kapuściński, già dieci anni

Il grande reporter polacco, Nobel mancato, se n’è andato ormai da un decennio. Qualche suo scritto aveva accenti profetici, come "L’altro"

 

Uno degli ultimi libri preparati quando ancora era in vita ma pubblicato solo dopo la sua morte s’intitola “L’altro” (Feltrinelli, 2007). Si trattava di un ciclo di conferenze che l’autore, polacco-bielorusso di Pinsk, aveva tenuto qualche mese prima di morire, il 23 gennaio del 2007. Ryszard Kapuściński resta per i giornalisti da reportage, quelli che viaggiano, quelli che conoscono il mondo, un riferimento e una guida.

Nel suo “L’altro”, il giornalista guarda al mondo che cambia e scrive: «La mappa del mondo è cambiata… una mappa colorata, variopinta, ricca e incredibilmente complessa» (47). Una mappa in continuo divenire, cangiante. Si chiede Kapuściński: «In quale misura noi, abitanti dell’Europa, siamo preparati a un simile cambiamento?». Risposta fulminea: «Secondo me, poco. Trattiamo l’altro soprattutto come un estraneo… come il rappresentante di un genere separato. E, soprattutto, lo trattiamo come una minaccia» (48). Non è quello che accade nella nostra Europa dei muri e degli accordi bilaterali che vanno contro i diritti dell’uomo?

Attento da sempre alle questioni terzomondiste, autore di libri sul Sud più che sul Nord del mondo, scriveva in “L’altro”: «L’estraneo, l’altro nella sua edizione terzomondista (e quindi l’individuo attualmente più numeroso sulla faccia del globo) continua a venir trattato come un oggetto di studio, senza essere ancora diventato un nostro partner, corresponsabile del destino del mondo in cui viviamo» (50).

Dobbiamo capirlo, pena la dissoluzione della pace e della vita civile: «Il nostro pianeta, popolato per secoli da un ristretto gruppo di gente libera e da molteplici strati di gente sottomessa, oggi è abitato da un numero sempre crescente di nazioni e società sempre più convinte dell’importanza del proprio valore individuale» (75). Ma agiamo cercando di preservare la nostra superiorità, pur avendo teorizzato la libertà di tutti.

Perciò «per capire meglio sé stessi bisogna comprendere meglio gli altri, confrontarsi e misurarsi con essi… la xenofobia è la malattia di gente spaventata, afflitta da complessi di inferiorità e dal timore di vedersi riflessa nello specchio della cultura altrui» (14). Con una speranza, determinata dallo sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione, oltre che dall’evoluzione del pensiero: «La paura dell’altro viene sempre più spesso sostituita dalla curiosità e dal desiderio di conoscerlo più da vicino» (19). Perciò «non dobbiamo lasciarci scoraggiare», facendo un esercizio semplice e decisivo: «L’essenziale è innanzitutto ricordare e citare sempre gli altri» (40). Questo è giornalismo, questa è umanità, questa è religione, questa è chiaroveggenza.

Durante un incontro che ebbi con lui nel 2006 nell’ormai ex-Caffè della pace, a Roma, Ryszard mi confidò: «L’umanità geme, come dice la Bibbia, perché è in una fase di nuova creazione. Fase che è iniziata ma non si sa quando finirà». Grazie Kapuściński.

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