Kahil o Salvatore

Insoliti accostamenti può capitare di fare a chi, come me, è solito leggere più libri contemporaneamente, e spesso di genere diverso. Come in questo caso, a proposito di Kahlil e di Salvatore. Kahlil è Kahlil Gibran (1883- 1931), lo scrittore libanese autore de Il Profeta. Devo confessare che, curioso di conoscere questo libroculto, già alle prime pagine ho interrotto la lettura: provo infatti un istintivo rigetto verso quegli autori che parlano per sentenze, anche se con stile elevato e attraente. Per non cedere però ad una impressione superficiale, prima di continuare ho voluto documentarmi su una biografia autorevole di Gibran, per cercare di capire i motivi di un successo che non tende a diminuire a più di 70 anni dalla morte (sono milioni le copie delle sue opere principali vendute in tutto il mondo). Ho scoperto così che il personaggio, dotato indiscutibilmente di un talento non comune, si atteggiava lui stesso a profeta e amava circondarsi di ammiratori ed ammiratrici i cui elogi non facevano altro che accrescere a dismisura il suo ego. In sostanza egli ha vissuto la sua non lunga vita (è morto a 48 anni alcolizzato) con una maschera che lui stesso ha provveduto a costruirsi, la maschera appunto di uno – dotato peraltro di un fascino straordinario – che ha un insegnamento e delle verità da elargire. Emblematico l’episodio di due cameriere che, ad una cena durante la quale lo scrittore, secondo il suo solito, pontificava, non riuscirono ad andare avanti nel servizio. Interrogate dalla padrona di casa, si giustificarono dicendosi soggiogate da quell’ospite che sembrava proprio Gesù. Gibran, ovvero un uomo perennemente in bilico tra due mondi e due culture: l’Occidente che l’aveva accolto e gli aveva dato fama (apparteneva ad una famiglia emigrata negli Usa) e l’Oriente delle sue origini, in cui non avrebbe fatto più ritorno se non dopo morto. Poeta prima che filosofo, non ha elaborato un pensiero sistematico (del resto neanche lo pretendeva), ma si è limitato ad indicare possibili vie per giungere alla sapienza e alla felicità, mescolando autentiche perle ad ovvietà, ammirazione sviscerata per Cristo, cui ha dedicato la sua seconda opera più fortunata, a fede nella reincarnazione, cristiano per nascita ma decisamente critico per quanto riguardava la struttura della sua Chiesa, quella maronita. Mi ha fatto pena quest’uomo che ha tentato con tutte le forze di adeguare la propria vita al messaggio che andava sbandierando senza però riuscirci, attratto com’era anche dalle lusinghe del successo, della gloria mondana, dell’amore di sé. Ha avuto almeno l’onestà – lui che neppure agli amici più intimi si svelava del tutto, cercando più che altro degli adoratori – di confidare una volta ad uno di loro: Sono un falso allarme. E il dramma contenuto in questa confessione me lo ha reso finalmente più umano, più vicino. Autore popolare anche in Italia, dove certe editrici cattoliche pubblicano fin le sue opere più trascurabili, non a caso nei Paesi di cultura anglosassone figura in genere negli scaffali dedicati alla produzione New Age. Se infatti Il Profeta ed altre opere di Gibran continuano a raccogliere tanti consensi, lo si deve al loro messaggio impregnato di misticismo biblico e islamico, di quei valori di amore e fraternità universale così necessari negli anni successivi al Primo conflitto mondiale ma di grandissima attualità anche in questa nostra epoca secolarizzata e carente appunto di quegli ideali; lo si deve all’artista che, indipendentemente dalle sue debolezze, ha saputo esprimere tramite un dono ricevuto dall’alto, un guizzo che poi, si spera, invoglierà a cercare più oltre, verso la Luce piena e vera. E vengo a Salvatore. È Salvatore Barresi, il pastore del ragusano morto pochi anni or sono folgorato da un fulmine mentre riconduceva all’ovile le sue pecore. Di lui abbiamo già scritto di recente su queste colonne (vedi Rapito dal Cielo in Cn n. 2/2006). Perché dunque ritornare su questa figura? Perché, vedi caso, alla lettura della biografia di Gibran, alternavo quella di un breve ma intenso profilo di Barresi contenente una scelta di estratti da sue lettere o brani di diario. Inevitabile, quindi, il confronto fra i due personaggi. Salvatore non si riteneva e non era certo uno scrittore. I suoi sono testi disadorni, estremamente semplici, ma – e qui è la meraviglia – vanno direttamente al cuore perché espressione di una vita riscaldata da un fuoco interiore che rivela una profonda esperienza di Dio. Sono a volte brevi pensieri, quasi sentenze che ricordano, in certo modo, quel genere aforistico a me non congeniale. Basti qualche esempio: Il dono più grande che puoi fare a Dio è la tua fiducia in lui. Attraverso la morte si rinasce come nuovi. La santità consiste nello sprofondare nell’umiltà. Essere poveri in spirito significa essere generosi. Nel dolore l’uomo diventa ricco, senza il dolore perde tutto. La coscienza è come una vetrata: più la tieni pulita più ci vedi bene. Non sarai facilmente un vero cristiano se non sei già mariano . Se metti Gesù come socio nel tuo lavoro farai affari d’oro. Non è che Dio non ascolta le nostre domande, siamo noi a non ascoltare le sue risposte . La preghiera vocale non è altro che uno scalino per salire alla preghiera del cuore. Sarai un vero amico quando saprai amare l’altro così com’è. Fare teologia non significa affermare la propria opinione, ma approfondire le verità evangeliche. E via di questo passo. Salvatore mi è apparso un grande, perché, come infiniti altri uomini e donne di cui non v’è traccia nella letteratura e nella storia scritta, ha consumato la sua breve esistenza nell’estasi, ossia fuori di sé, proiettato verso gli altri, in cui ravvisava e trovava Dio. Dio che ora egli continua ad offrire a chi, leggendolo e conoscendone la storia, entra in sintonia con la sua anima semplice. Lui sì, profeta. Perché tale è chi – a prezzo a volte di indicibili sofferenze – non parla a nome suo, ma di Colui che lo ha scelto perché gli sia testimone davanti agli uomini.

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