Jerry Lewis. Scomparso il molleggiato d’oltreoceano

91 anni. Attore e regista. Non è stato solo magnetico intrattenimento, ma anche - e soprattutto - fotografo e fine osservatore, geniale incarnazione delle mostruosità americane dal secondo dopoguerra in poi, e forse, come poi non può che essere, dello smarrimento mentale di cui l’essere umano soffre cronicamente.

Jerry Lewis aveva novantuno anni, e un corpo snodato che soffriva da tempo.  Acciacchi, dolori e malattie avevano bussato presto alla sua porta e ormai non si contavano più. «Avrei dovuto morire tante volte – diceva a La Repubblica il 10 agosto del 2016 – invece sono ancora qui». Con viva sofferenza, certo, ma anche con un’indomabile capacità di ironizzare e ridere ancora, come gli capitò impetuosamente a Cannes nel 2013, durante la conferenza stampa del film Max Rose di cui era interprete, quando non smetteva più di sganasciarsi davanti ai giornalisti. Nella sua ultima intervista italiana, giusto giusto un anno fa, diceva di aver toccato i 140 chili a forza di cortisone, per calmare i suoi polmoni morsi dall’asma. «Ho lavorato tanto coi dottori, ma non volevo che nessuno sapesse dei miei problemi», spiegava ancora il ragazzone anziano bambino, forse perché il suo nome risuona ad ogni immaginario come fanciullesca e sfrenata leggerezza, come folleggiante e vitale dinamismo, e guai a sporcare l’opera, l’arte, l’incantesimo coi guai dell’uomo che c’è dietro. Anche se poi, a leggerlo con completezza, il grande comico del Novecento non è stato solo magnetico intrattenimento, ma anche – e soprattutto – fotografo e fine osservatore, geniale incarnazione delle mostruosità americane dal secondo dopoguerra in poi, e forse, come poi non può che essere, dello smarrimento mentale di cui l’essere umano soffre cronicamente.

jerry lewis (1926-2017) - star max collection

Ha recitato, ma anche diretto tanti film, Jerry Lewis, e questo è bene precisarlo. Attore e poi, dal 1960 con Ragazzo tuttofare, anche regista comico. Maniacale, attento, geniale sia davanti che dietro la macchina da presa. Non ha mai vinto l’Oscar in nessuna delle due categorie, quando lo avrebbe meritato. Venezia, invece, nel 1999, con il Leone d’oro alla carriera, ha consegnato al molleggiato d’oltreoceano la gratitudine di quel vecchio continente che col dono della giusta distanza coglie meglio, spesso, le sfumature che completano l’interpretazione di un gigante americano.

Lewis

Del resto, anche la Francia, molti anni prima, aveva già lodato il cinema di Jerry Lewis: si era mossa la critica con la C maiuscola, quella dei Cahiers che sposta gli equilibri. Il regista Jean-Luc Godard, per fare un esempio rumoroso, parlò di Jerry Lewis come di un autore capace di sperimentare qualcosa di nuovo, e lo metteva prima di Chaplin e di Keaton. Il punto non è la classifica – che Lewis rifiutava – ma l’accostamento di questi tre grandi nomi americani, di questi tre mega talenti di un Paese che aveva visto spuntarsi i dentoni irresistibili del suo Jerry alla fine degli anni Quaranta, con la sua maschera da scimmia e gli occhi storti, con i suoi pazzi, buffi e innovativi movimenti.

dean-martin-and-jerry-lewis

L’America lo aveva notato (e se ne era subito innamorata) come pezzo di una stranissima e fantastica coppia: un (finto) brutto accanto a un bello, lo strampalato accanto all’elegante, Jerry Lewis accanto a Dean Martin.  Lo sveglio e il “lento” si erano incontrati nel giugno del 1946, e tutte le altre coppie comiche invecchiarono di colpo. Dean “l’italiano” cantava «That’s amore» e Jerry dal New Jersey lo interrompeva di continuo coi suoi goffi pasticci e le sue plastiche smorfie. Roba fresca, sorprendenti gag che conquistarono prima le platee e poi la radio a stelle e strisce, quindi la televisione e infine il cinema.

16 film in 7 anni: 1949 – 1956, spesso scritti dallo stesso Lewis e sempre diretti da solidi artigiani di commedia, Tashlin e Taurog su tutti. Da La mia amica Irma a Il caporale Sam, da Hollywood o morte a Il nipote picchiatello, più tanti altri film e persino fumetti, fino a quando il sodalizio finì senza strette di mano, ognuno per la sua strada: Martin con Minnelli e Hawks, Lewis fedelissimo alla sua parodia che diventa satira esplosiva, al suo bambino tutto corpo e mimica facciale, vittima e al contempo narratore impietoso della sua società, dei suoi meccanismi consumistici e piccolo borghesi.

Una comicità parlante e irriverente, persino sfrenata, con alti e bassi artistici come la sua vita piena di montagne russe, di soddisfazioni e di ferite profonde (due matrimoni e un figlio morto per overdose di barbiturici), una carriera non priva di incomprensioni e di qualche polemica sul tema della disabilità, della donna e dell’omosessualità, ma anche una caratterizzata da un costante impegno nella beneficenza. Una vita, soprattutto, fatta di film praticamente fino ad oggi, spalmati lungo mezzo secolo di Hollywood. Lewis accanto ai registi di cui si fidava oppure diretto da se stesso, tutto da solo, un po’ come faceva da bambino, perché oltre alla gavetta da buon americano che si fa da solo coi mille mestieri – e lui ne ha fatti tanti – Jerry Lewis è stato anche un figlio d’arte: i suoi genitori, artisti ebrei, cantavano nei night e a cinque anni, il piccolo genio già imitava e si divertiva sopra un palcoscenico. Tra i quasi 70 film da lui diretti o interpretati vale la pena ricordarne almeno un altro: Re per una notte di Martin Scorsese, del 1983, dove il grande Jerry Lewis, in un ruolo parzialmente autobiografico, interpreta un famoso comico americano dentro una pellicola che racconta – ancora una volta impietosamente – il doppio fondo del mondo dello spettacolo americano.

 

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