Italiani. Un popolo di migranti

Alla ricerca di un futuro migliore e dignitoso, in fuga spesso dalla povertà. È con questa speranza che dalla fine dell’Ottocento ad oggi, milioni di italiani hanno lasciato il nostro Paese. Un fenomeno di massa, spesso doloroso, che appare  inarrestabile. Il racconto di Franz Coriasco in Mille Italie (Città Nuova)

Una storia, quella della nostra emigrazione, spesso doloro­sa, come tutte quelle più o meno coatte; lastricata di tragedie e di stenti, di infinite nostalgie e di operose rivincite, talvolta illuminata da clamorosi successi, ma anche accompagnata da una litania di pregiudizi e discriminazioni razziali. Una vicenda, che è anch’essa parte peculiare dell’italianità, e che qui mi pare opportuno riper­correre per sommi capi, non foss’altro per la marginalità riservata a questo immane fenomeno dai nostri manuali scolastici. […]

L’emigrazione italiana inizia come fenomeno di massa nella se­conda metà dell’Ottocento. [… ]

A favorire lo sviluppo di questa svolta epocale furono le con­dizioni di estrema povertà di molte zone, soprattutto nel Meridione ma non solo; basti pensare ai nonni astigiani di papa Francesco o alle schiere di veneti sparpagliati in tutta l’America Latina. Una fuga indotta da condizioni spesso ai limiti della sopravvivenza: pes­sime condizioni igienico-sanitarie di molte aree rurali, difficoltà a trovar lavoro, l’impossibilità di sognare una vita che potesse essere insieme onesta e dignitosa; con le angherie dei latifondisti e dei padroni a innescare conflitti sociali sempre più esplosivi. Più che l’inseguimento d’un sogno, lo scampare a una tragedia: per milioni di uomini, donne, bambini, intere famiglie.

Un primo dato impressionante: se nel primo censimento la po­polazione del Regno d’Italia ammontava a circa 23 milioni di perso­ne, nel periodo compreso fra il 1860 e il 1885 si registrarono oltre 10 milioni di partenze dal nostro Paese. Un vero e proprio esodo dun­que, destinato a incrementarsi nei decenni seguenti. Nel primo pe­riodo riguardò in maggioranza tre regioni del nord (Veneto, Friuli, e Piemonte), in seguito il primato passò a tre regioni meridionali: Cam­pania, Puglia, e Sicilia. Un fenomeno suddivisibile in tre grandi fasi: quella della grande emigrazione compreso fra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta del secolo scorso, la successiva emigrazione europea, con il suo picco tra gli anni Cinquanta e Sessanta, infine la nuova emigrazione, attualmente in corso, con dimensioni minori e con ca­ratteristiche molto diverse da quelle che l’avevano preceduta. […]

Di certo nessun altro Paese ebbe un flusso migratorio così con­sistente e prolungato nel tempo: una serie di ondate partite da tutte le regioni italiane e che hanno raggiunto tutti i continenti divenendo la causa primaria della straordinaria quantità di italiani nel mondo. […]

Nel corso della prima ondata, quasi tutti lasciavano il loro Pa­ese e i loro affetti con l’inquietudine di chi si prepara ad affrontare un mondo infinitamente diverso; spinti da grandi speranze, certo, ma anche con la morte nel cuore. […]

Si partiva in genere dai porti di Genova, di Napoli, o di Paler­mo, sbracciandosi verso i parenti e gli amici rimasti a piangere sul molo, per poi venire subito stipati nelle terze classi di bastimenti e piroscafi, più simili a delle galere galleggianti che ai moderni tran­satlantici. Era uno sprofondare nel ventre di una balena metallica e frastornante che per molti rappresentava il primo approccio alla modernità. Nella stiva, montagne di valigie nelle quali erano com­presse insieme ai poveri abiti, qualche foto, le misere scaglie del proprio vissuto e qualche regalo da offrire ai parenti o agli amici che aspettavano al di là dell’Atlantico. Accanto a sé, i fagotti neces­sari alla sopravvivenza durante la navigazione, in fondo al cuore, i ricordi e le nostalgie per tutto ciò che s’era dovuto lasciare a casa. […]

Non meno dura era l’esperienza che li attendeva allo sbarco. Specie se si era scelto – come fecero quattro milioni di italiani tra il 1880 e il 1915 – di provare a rincorrere il “sogno americano”. L’isolotto di Ellis Island, situato nel golfo di New York, è tuttora parte integrante della memoria collettiva della nostra emigrazione. I passeggeri di terza classe venivano immediatamente scortati ver­so il primo centro “d’accoglienza”, dove in realtà li attendevano le prime umilianti ispezioni. Sporchi, affamati, spesso in precarie condizioni di salute, disorientati e senza conoscere una sola parola d’inglese: giusto il tempo di gettar l’occhio all’imponente orizzonte metropolitano che si stagliava in lontananza, ed eccoli brutalmente schiantati tra le fauci della realtà, spesso separati dal proprio nucleo familiare poiché erano previste due file diverse, una per gli uomi­ni, l’altra per le donne e i bambini. A ciascuno veniva consegnata una inspection card e da lì cominciava un’attesa che poteva protrar­si anche per un giorno intero: circondati da faccendieri, usurai e truffatori d’ogni risma, prima di essere sottoposti a un ruvidissimo interrogatorio-test, quindi a una imbarazzante e dolorosa visita me­dica. Chi la passava e aveva tutti i documenti in regola, poteva final­mente avviarsi verso la nuova vita; eccezion fatta per le donne sole o fidanzate, che potevano lasciare l’isolotto solo a condizione di sposarsi sul posto. I malati guaribili venivano invece condotti verso l’annesso ospedale, per una quarantena che poteva protrarsi anche per mesi. Niente da fare invece per quelli considerati “cronici” o per gli “indesiderabili”, che venivano immediatamente rispediti nei loro paesi d’origine (e non pochi di loro preferirono il suicidio).

 

Da MILLE ITALIE, Storie e sorprese del Belpaese nel mondo, di Franz Coriasco (Città Nuova)

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