«Ecco un popolo che si leva come una leonessa e si erge come un leone; non si accovaccia, finché non abbia divorato la preda e bevuto il sangue degli uccisi». È la citazione della Bibbia (Libro dei Numeri: 23,24) che, nell’intenzione del premier israeliano Netanyahu giustifica e forse vuole spiegare l’attacco israeliano all’Iran iniziato il 13 giugno scorso.
Rising Lion, un leone che si erge. In ebraico suona però Am Kalavi, che è anche promessa di un futuro vittorioso per un Israele potente. Dal mio punto di vista, si tratta di un classico esempio di un testo (poetico) della Bibbia, in cui l’autore sacro racconta storie dell’epoca di Mosè, ma il testo viene ripreso e riletto dopo 3 mila anni, in un contesto completamente diverso, e soprattutto “usato” per attribuire “verità” ad una scelta di sterminio preventivo. Sostenendo che è necessario per evitare che il nemico iraniano realizzi la bomba atomica per sterminare, a sua volta, Israele. La pretesa è in sostanza quella di sempre: Dio è con noi. Ergo: il colpevole del mio sterminio preventivo è evidentemente il nemico, non certo io. Come ripeteva Primo Levi in un altro contesto: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario».

Il premier israeliano Benyamin Netanyahu. ANSA/GOVERNO ISRAELE
Mi viene in mente un commento arguto di Kim Chernin (1940-2020), poetessa e scrittrice statunitense, ebrea e figlia di ebrei russi emigrati negli Usa, che nel 2004 scriveva in I sette pilastri della negazione ebraica: «Non riesco a contare il numero di volte in cui ho letto la storia di Giosuè come una storia del nostro popolo che entra in legittimo possesso della terra promessa, senza fermarmi a dire: “ma questa è una storia di stupri, saccheggi, massacri, invasioni e distruzione di altri popoli”». Pensieri da antisemita, forse, ma espressi da una semita.
D’altro canto, Netanyahu non è nuovo alle interpretazioni fondamentaliste della Torah. Un noto esempio è la maledizione degli amaleciti, citata da Netanyahu in varie occasioni a partire dal 28 ottobre 2023. Gli Amaleciti erano un popolo insediato in Palestina prima della conquista ebraica, nel dodicesimo-decimo secolo prima dell’era volgare. Recita il brano biblico: «Così dice il Signore degli eserciti (…) Và dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini». A parte considerazioni sull’analogia con l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, trasferire questa singola frase di maledizione a tutto il popolo palestinese di oggi, privandola di contesto ed ermeneutica, è a mio avviso un’operazione di indigeribile fondamentalismo biblico, allo scopo di creare la cornice di un quadro che biblico non è.
Ben altra è la prospettiva, per esempio, di Emmanuel Lévinas (evidente l’ascendenza ebraica del nome), che nel suo L’aldilà del versetto (1986) scriveva: «Strappare alle parole bibliche – come se fossero le ali ripiegate dello Spirito – tutti gli orizzonti che il volo dello Spirito può abbracciare, tutto il senso che queste parole portano o al quale esse risvegliano».
Sul versante della Repubblica iraniana, pur nell’alveo della ricca e profonda tradizione sciita (sorta nel sesto secolo e.v., che riconosce comunque insieme ai sunniti i cinque pilastri fondamentali dell’Islam), la lettura fondamentalista del Corano è evidente già a partire dal famoso testo praticamente normativo dell’ayatollah Khomeyni, Il governo del giureconsulto (velayath-e faqi), che ha trasformato l’antico Stato persiano in un regime militare e di controllo poliziesco, e la vita di molti iraniani in un incubo (con il più alto numero al mondo di sentenze di morte per i cittadini giudicati dal regime non allineati). È dall’impostazione islamista del regime che deriva il mantra ossessivo dell’eliminazione dell’“entità sionista” (mai indicata come Israele).
Un altro esempio di fondamentalismo coranico, di cui si parla spesso a sproposito, è quello del velo islamico obbligatorio per le donne. Nel Corano un concetto simile al velo viene citato solo 4 volte e con termini (hijab, jiltab e khumur) che sono molto diversi da quelli rigidi sanciti dalle norme predilette da molti ayatollah. E non si parla mai di obbligo, anzi il testo sacro sembra invitare a sfuggire ogni fanatismo o integralismo religioso, anche nel vestire.
Ma ben più esplicativi della teoria sono i commenti riportati dopo il 13 giugno dal sito iran international, espressione di una certa diaspora iraniana antiregime. Un esempio: «L’attrice e attivista per i diritti umani Nazanin Boniadi ha lanciato l’allarme: la gente comune iraniana, già stretta tra un governo autoritario e anni di pressioni economiche, ora si trova ad affrontare l’ulteriore minaccia della guerra. “C’era una terza via: strangolare il regime, dare potere al popolo – ha scritto Boniadi –. Pochi ci si sono impegnati. Ora, gli iraniani innocenti, che anelano alla libertà, sono intrappolati tra la potenza di fuoco straniera e la tirannia interna”».