In realtà basta amare

Luigi Accattoli, ora in pensione, è tra i più noti vaticanisti. Tempo di bilanci e di progetti.
Luigi Accattoli

Viaggia nello spazio della blogosfera sulle ali della parola. È un giornalista in pensione, ma è molto giovane nello spirito. È un autentico “bambino evangelico” e un appassionato ricercatore di storie di vita di cristiani d’oggi. Luigi Accattoli, detto Gigi, è venuto a trovarci in redazione per una conversazione collettiva sulla sua lunga esperienza di vaticanista: per 27 anni al Corriere della Sera e 6 anni a La Repubblica.

 

Ha mai fatto un bilancio della sua carriera professionale?

«Considero chiusa la mia carriera professionale che è stata una battaglia in trincea perché la voce cristiana nei media laici non ha ancora un riconoscimento adeguato. Sono sempre stato apprezzato, ma non mi è stato riconosciuto il ruolo di interprete dei fatti. Sono sempre stato relegato al ruolo di cronista, anche se nobile. I commentatori erano colleghi forse meno preparati ma più corrispondenti alla fisionomia commerciale e alla politica ideologica del giornale. Comunque, sono molto contento della mia carriera professionale, ma lo sono anche che sia finita».

 

Cosa le resta del suo lavoro?

«Ho incontrato gente importante dentro i giornali e per conto dei giornali. Mi sono tenuto aggiornato, ho viaggiato e ho mantenuto i figli e con questi vantaggi credo di aver pareggiato le amarezze di un mestiere veloce fino a risultare spietato. Ma ci sono stati vantaggi indiretti, che portano il risultato oltre il pareggio. Ho appreso l’arte di cercare e narrare storie di vita, che è un modo di amare l’uomo. Ho conosciuto un’etica severa del lavoro e della cittadinanza, che viene onorata anche quando non è seguita. Ho imparato l’umiltà».

 

Progetti per il futuro?

«Avevo in mente di fare un libro su Benedetto XVI dal titolo: In realtà basta amare, una frase estrapolata da un suo discorso a Lourdes del 13 settembre del 2008 in cui il papa invitava a scoprire la semplicità della vita cristiana: basta amare, appunto. Però ho pensato che è meglio lasciar fare ad altri. Da ora in poi mi dedicherò con ancora maggiore passione a cercare “fatti di Vangelo”: le testimonianze cristiane più radicali e trasparenti che mi adopero a narrare in una pagina del mio blog intitolata “Cerco fatti di Vangelo”. Così metto a frutto l’arte di scovare e narrare storie che ho coltivato per decenni in quella “Babilonia delle genti” che sono i media commerciali. E cerco storie inedite e sconosciute perché penso che il mestiere del giornalista sia quello di esplorare la realtà».

 

Come ha iniziato a cercare fatti di Vangelo?

«Ho iniziato a raccoglierli nel marzo 1993, su impulso di Tonino Bello, che incontrai morente e mi chiese di aiutarlo a preparare l’omelia del Giovedì Santo, che poi sarebbe stata l’ultima della sua vita. Mi disse: “Tu che sei un giornalista, aiutami a trovare segni di speranza per la mia omelia, perché io vedo che i giovani e gli adulti sono sfiduciati; io vorrei indicare loro i segni della presenza di Dio in mezzo a noi”. Don Tonino morì due settimane dopo e io mi dissi: quello che mi ha chiesto questo caro vescovo morente io posso farlo come opera della mia vita».

 

Ha mai fatto una valutazione, in questi 33 anni, sul suo cammino spirituale?

«Nel cercare i fatti di Vangelo mi sono imbattuto in un testamento spirituale che ho fatto mio. È stato scritto, 26 anni prima della sua morte, da Luigi Maverna, vescovo ausiliare a La Spezia, poi vescovo a Chiavari, subito dopo assistente nazionale dell’Azione cattolica, e a seguire segretario generale della Cei, infine arcivescovo a Ferrara. In quel testo scritto davanti a Dio affermò con la sicurezza dei santi che “la Chiesa non è nelle grandi cose” ma dove “due o tre sono riuniti” nel nome di Cristo.

«Luigi Maverna deve decidere nomine, trattare affari, far quadrare bilanci, occuparsi del Concordato, fare dichiarazioni ai media, incontrare il papa: e non è quello che vorrebbe. Un giorno nel testamento lo scrive pure: le strutture ecclesiastiche sono sì necessarie, ma non bisogna ingannarsi “quasi che la Chiesa sia lì”, perché essa non è nelle grandi cose, ma in quella piccolissima e immensa di cercare Cristo e di stare con i fratelli “riuniti” nel nome di Cristo. Ed è così che, dal vescovo più timido tra quanti sono arrivati al vertice della Chiesa italiana nel secolo scorso, ci è venuto – dopo la morte – il messaggio più radicale e autentico».

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