Ilaria Cucchi, mio fratello simbolo degli ultimi

I diritti umani non sono mai e per nessun motivo sacrificabili. Occorre fare luce sugli abusi commessi per restituire credibilità alle istituzioni». Intervista ad Ilaria Cucchi nel corso di un incontro in una scuola romana il giorno successivo all’udienza nel processo contro i presunti autori dell’omicidio di suo fratello Stefano  
ANSA/ANGELO CARCONI

Una mattinata di fine novembre 2018, nell’ambito del “Progetto sulla legalità”, alcuni  studenti della scuola superiore I.P.S. Stendhal/Emery di Roma, hanno incontrato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il trentunenne geometra romano morto all’ospedale Pertini il 22 ottobre 2009, durante la custodia cautelare.

Il processo bis, in corso dinanzi alla Corte di assise di Roma, vede imputati alcuni militari dell’arma dei carabinieri per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità. Significativa la frase di Piero Calamandrei, scritta nel biglietto consegnato dai ragazzi ad Ilaria Cucchi insieme ad un mazzo di fiori: “Per trovare la giustizia bisogna esserle fedeli. Come tutte le virtù si manifesta soltanto a chi crede”.

Il film “Sulla mia pelle”, selezionato come film d’apertura della sezione Orizzonti, alla 75a edizione della Mostra del cinema di Venezia, ricostruisce gli ultimi sette giorni della vita di Stefano Cucchi, traendo spunto dalle oltre 10 mila pagine di verbali del processo. Sette giorni che hanno cambiato la sua vita e quella della sua famiglia.
Sì, in quei giorni la mia vita è cambiata, la vita di mio fratello è finita e la mia famiglia è stata devastata. Il film parla della violazione dei diritti di un essere umano, è talmente vero, a tratti spietato con Stefano, che non risparmia nulla a lui e alla mia famiglia. Mio fratello è morto di dolore come l’ultimo tra gli ultimi, ed è morto da solo come un cane. Nel momento in cui l’ho visto sul tavolo dell’obitorio, dall’espressione del suo volto si percepiva la solitudine in cui è stato lasciato morire. Mi auguro che questo film possa essere uno strumento per risvegliare le coscienze considerato che viviamo in una fase particolarmente drammatica del nostro Paese in cui si sta facendo passare il concetto che il nostro benessere è strettamente legato alla privazione dei diritti di altre persone o gruppi di persone. Mio fratello era un ragazzo normale come tanti altri, aveva difetti e fragilità che lo hanno portato ad entrare nel mondo della droga, una sostanza tremenda che massacra le vite, distrugge le famiglie e non lascia più niente. Stefano non era un santo, non era un eroe, ma è diventato, suo malgrado un simbolo per tutti gli altri ultimi di cui nessuno sentirà mai parlare e di cui la nostra società è piena.

Il percorso intrapreso dalla sua famiglia non è stato affatto facile. Avete mai pensato di fermarvi?
Mai. Quando ti arriva un dolore così grande le cose sono due: o diventi cattivissimo e lo posso capire, oppure, e questa è la cosa più saggia da fare, cerchi di trasformare quel dolore in qualcosa di positivo. Questa non è più solo la battaglia per mio fratello ma un’occasione per far capire alle persone che i diritti umani non sono mai e per nessun motivo sacrificabili anche e soprattutto quando sono i diritti degli ultimi. Pochi giorni dopo la sua morte, Stefano è apparso in sogno al mio migliore amico, Paolo, un missionario, e gli ha detto: “Dì a mia sorella che sto bene adesso, forse non saprà mai quello che è successo, però dille di andare avanti perché quello che farà per me servirà per tanti altri. Oggi a distanza di anni so perfettamente cosa Stefano avesse voluto dirmi: di farlo anche per gli altri”. Nel sogno però c’era solo una cosa in cui mio fratello si sbagliava: posso assicurargli che giustizia sarà fatta pure per lui.

Spesso, in occasione dei suoi interventi pubblici, si scatena il derby tra opposte tifoserie: chi sostiene che gli appartenenti alle forze dell’ordine siano tutti dei mascalzoni e chi sostiene che parlare di vicende come quella di Stefano getti fango sull’Arma dei carabinieri. Perché è importante fare piena luce sugli abusi commessi dalle istituzioni? Qual è il valore civile di questa inchiesta?
Io ho profondo rispetto per la divisa e so che la stragrande maggioranza dei carabinieri sono persone perbene che rischiano la loro vita per tutelare i nostri figli. D’altra parte so che c’è un grande problema culturale. Nel caso di mio fratello non si sta processando l’intera Arma dei carabinieri ma cinque persone, ed oggi si sta indagando anche su alcuni superiori autori del depistaggio. Il problema è che si fa questo distinguo. Chi sacrifico? Chi indossa una divisa o chi ha sbagliato? Di solito viene sacrificato chi ha sbagliato o perché si drogava o perché era un ultimo e non si poteva neppure difendere. Voglio aggiungere una cosa: è bello lo slogan “onestà, onestà, onestà”, però il vero slogan oggi dovrebbe essere: “umanità, umanità, umanità”. Se non ripartiamo da lì, dal rimettere al centro l’essere umano penso che non cambieremo mai nulla. Eppure oggi di tutto sentiamo parlare meno che di quello che dovrebbe essere il principio fondamentale: il rispetto dell’essere umano. Occorre fare luce su tali abusi anche e soprattutto per restituire credibilità alle istituzioni. Nel momento in cui i pubblici poteri hanno la capacità di essere rigorosi con sé stessi automaticamente acquisiscono credibilità, e questo è un lavoro importante da fare perché quella che ho intrapreso non è una battaglia contro le istituzioni, ma un percorso da portare avanti insieme. Credo che momenti come l’incontro alla Camera in cui è stato proiettato il film su Stefano, siano occasioni importantissime di ricucitura tra le istituzioni e le vittime, che non possono essere rappresentate come nemici.

 

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