Il primo passo è fatto

Celeste. Si chiama così la prima bambina nata sana nell’Africa australe da una madre portatrice del virus dell’Aids. E se lei non è venuta al mondo malata, l’altra bella notizia è che la madre non è morta: prima e dopo il parto, infatti, ha potuto beneficiare gratuitamente della terapia antiretrovirale. È successo a Matola 2, un sobborgo alla periferia di Maputo, nel Mozambico dove, la Comunità di sant’Egidio da poco più di un anno ha concretizzato quello che sembra essere quasi un sogno: “Dream”, si chiama infatti il progetto teso a curare l’Aids in Africa. Il piccolo grande miracolo successo a Matola 2 è stato il primo di una serie di lieti eventi resi possibili dalla ristrutturazione del Centro di prevenzione verticale da madre a bambino, che appunto la comunità di Riccardi aveva promosso. Perché prima di questo intervento la terapia antiretrovirale veniva adottata solo nei confronti di bambini nati sieropositivi mentre le madri che non ne beneficiavano non avevano altro destino che la morte. Gli 11 milioni di bambini africani orfani lo dimostrano. Già incoraggianti i risultati raggiunti da questa struttura inserita nel contesto sanitario pubblico mozambicano: è scesa al 2,8 per cento la percentuale dei bambini infettati al momento del parto. Un “sogno” che si sta allargando. Operatori di altri paesi africani quali Malawi, Angola, Guinea Bissau e Tanzania hanno infatti partecipato di recente al primo corso panafricano per la cura e la prevenzione dell’Aids. Dei 42 milioni di persone colpite nel mondo dall’Hiv, ben il 70 per cento vive appunto nell’Africa subsahariana. Fra i nuovi contagiati sono africane nove donne su dieci e otto uomini su dieci, con una speranza di vita ridotta al di sotto dei 40 anni. Una situazione sempre più drammatica che, come affermato dal ministro della salute camerunese, Urbani Olanguena Awono, ha prodotto nella società “cambiamenti fondamentali e devastanti. Oltre alla sofferenza psicologica per la perdita di tante vite umane, a livello sociale c’è stata una vera e propria rivoluzione della rete di solidarietà, fondamentale in paesi così poveri. Perché ormai molte famiglie considerano l’Aids una vergogna. O tante altre famiglie, semplicemente, tragicamente, non esistono più”. A parte il fatto che la morte del padre fa diminuire anche fino all’80 per cento il reddito di una famiglia costringendo i figli anche piccoli ad abbandonare la scuola per lavorare e accudire i genitori malati, prima che a loro volta abbiano bisogno di assistenza loro stessi. Un quadro drammatico, dunque, che potrebbe risultare senza speranza se non ci fosse qualcuno che non si rassegna. Come l’industriale indiano Yusuf Hamied, capo della Cipla di Bombay, un colosso di 6000 dipendenti di cui 400 dediti alla ricerca scientifica. Dal 2000 produce farmaci contro l’Aids a basso costo: 350 dollari l’anno a persona contro i 15 mila delle aziende cosiddette della Big Pharma, il cartello cioè che riunisce le multinazionali farmaceutiche occidentali e soprattutto americane. “Penso che bisogna risolvere il gravissimo problema dell’Aids non come business ma sotto l’aspetto umanitario – ha affermato -. Non voglio far soldi con i medicinali contro l’Aids. Produco circa 850 diverse medicine, se non guadagno su sei perché dovrei preoccuparmi?”. E che dire di Zachie Achmat, l’attivista sudafricano che è stato uno dei primi a lanciare la campagna “Prezzi bassi per i paesi poveri”? Contagiato infatti dal virus dell’Aids tredici anni fa, Achmat rifiutò di curarsi con dei farmaci che lui avrebbe potuto pagarsi ma la maggior parte della popolazione sudafricana non avrebbe potuto permettersi di comprare. E proprio il governo di Nelson Mandela era stato due anni fa al centro di una controversia che lo vedeva accusato da ben 39 multinazionali farmaceutiche di non rispettare gli accordi internazio- nali per l’acquisto di farmaci anti Aids. Di fronte infatti ai 4,7 milioni di sudafricani affetti dall’Hiv di cui solo lo 0,001 per cento in grado di pagare le cure necessarie, Mandela aveva introdotto il Medical Act col quale veniva permessa l’importazione di farmaci anti Aids da paesi terzi che li vendevano a prezzi più bassi (vedi n° 7/2001) . La diatriba, grazie anche all’interesse suscitato a livello internazionale, finì con il ritiro della denuncia da parte delle aziende farmaceutiche. Quella che non è invece terminata è la battaglia per estendere a tutti i paesi poveri la possibilità dell’accesso ai farmaci salvavita. Non è un caso, infatti, che nel ricco occidente la mortalità per Aids si sia ridotta mentre nelle nazioni meno sviluppate registri un costante aumento. In questa direzione è stato salutato come un successo, per alcuni storico, l’accordo raggiunto agli inizi di settembre dai 146 paesi del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, che dovrebbe permettere alle nazioni meno sviluppate di importare medicine a basso costo contro una ventina di malattie tra cui Aids e malaria (ne parliamo nei dettagli nella scheda a lato). Come sempre succede, contemporaneamente all’esultanza di alcuni va registrata la delusione di altri. Nel caso di questo accordo, ad esempio, l’ong inglese Oxfam e Medici senza frontiere, hanno evidenziato i troppi ostacoli burocratici e lo scarso apporto che questa decisione avrà nella soluzione del problema. Sarà infatti il Wto a decidere se l’importazione di tali farmaci sia fatta per proteggere la salute pubblica e tanto dipenderà anche dall’impegno dei vari governi nel garantirla. E sappiamo quanto inesistente sia il sistema sanitario dei paesi africani. Anche riducendo i costi della terapia, dunque, se non si alza il tenore di vita spesso vicino alla miseria, non si è fatto abbastanza. Anzi si è fatto troppo poco. Potremmo ancora trovarci di fronte a quella che l’inviato dell’Onu alla recente conferenza internazionale sull’Aids a Nairobi ha definito come una “grottesca oscenità”: la mancanza di farmaci antiretrovirali nel continente più povero e più flagellato dall’Hiv. L’accordo del Wto è dunque solo un primo passo, anche se fondamentale. L’ACCORDO DELWTO La decisione che le multinazionali del farmaco sono disposte, in favore dei paesi poveri, a rinunciare all’esclusiva che deriva loro dai brevetti di cui sono proprietari, consente a tali paesi di produrre in proprio alcuni farmaci salva-vita o di importarli da paesi come l’India, il Sudafrica e il Brasile a basso costo. Malattie mortali, come la malaria, la tubercolosi, l’Aids, potrebbero così essere meglio combattute anche in quei luoghi. Un indubbio vantaggio rispetto al passato,ma in molte situazioni purtroppo solo potenziale. Infatti, laddove mancano strutture sanitarie come laboratori d’analisi, reparti radiologici ecc., non sarà possibile l’indispensabile monitorizzazione della cura che richiede controlli clinici e strumentali periodici per evitare danni irreparabili a funzioni vitali come quella renale, epatica, cardiaca. Ciò non sminuisce il passo compiuto dalle multinazionali del farmaco: anzi sappiamo bene che la creazione d’ogni nuova molecola veramente innovativa costa in media 800 milioni di dollari e che il 70 per cento di quest’enorme cifra è assorbito da indagini che non diventeranno mai un farmaco vendibile. Rimane il fatto tuttavia che questa concessione potrà essere sfruttata laddove sarà possibile associarvi gli indispensabili controlli clinici cui si è sopra riferito. Infine, qualche notizia sui brevetti. Con l’avvicinarsi della scadenza del brevetto di un farmaco di successo, le industrie della “Big Pharma” talvolta introducono in commercio come nuovo farmaco uno stereoisomero del vecchio, una sostanza cioè che ha la stessa formula chimica ma che cambia la sua disposizione. Ciò talvolta determina una maggiore efficacia, o una minore tossicità, o entrambi i vantaggi; in altri casi invece nessun vantaggio rispetto al primo farmaco entrato in commercio, se non quello economico derivante dalla nuova brevettazione. Andrea F. Luciani

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