Il prezzo dello scrivere

Pare meritato questo riconoscimento internazionale allo scrittore sudafricano, attualmente residente in Australia e docente all’Università di Chicago, che ha trasformato la politicamente risolta questione razziale del suo paese in interminata questione morale (Deserto, Età del ferro) e consolidato la sua fama mondiale con romanzi quali Aspettando i barbari, Vergogna e La vita e il tempo di Michael K., che hanno ricevuto premi di altissimo livello prima dell’ultimo. Ma vorrei soffermarmi su un libro che mi ha intrigato, come si dice, per l’ambizione del tentativo: Il maestro di Pietroburgo (Donzelli ed.), in cui l’autore si confronta, narrativamente, niente meno che con il genio altissimo di Dostoevskij, inventando un episodio della sua vita legato alla (inventata) fine del figliastro ventiduenne Pavel, che nella vicenda è morto a Pietroburgo in oscure circostanze relative al sovversivo nichilista Necaev (personaggio storico) e nella realtà sopravvisse, inquieto e ribelle, al patrigno (ma il risvolto di copertina confonde realtà e fantasia). Che Coetzee sia un grande scrittore lo dimostra il fatto che da questo confronto non esce con le ossa rotte, pur producendo una vistosa deviazione, nel finale, che guasta l’insieme; e la sua ottima inventiva, nell’espressione e nello stile, che reggono quasi sempre il duro compito dell’autogiustificazione artistica. Coetzee conosce bene Dostoevskij, e chi lo conosce altrettanto può verificarlo pagina per pagina nell’analisi psicologica intima: uomo dì tremenda profondità e ambiguità, il genio russo conobbe tragicamente il male e altamente il bene, lottando fino alla fine per estrarre, dal male più disperatamente intricato e compenetrato nell’anima, il bene più vero, meno banale, più – scusate il paradosso – all’altezza del male scongiurato e vinto. Questo, tanto nella vita quanto nell’opera. Su questi abissi Coetzee fa Dostoevskij grande e lubrico, visionario e carnale, veggente e meschino, e tende troppo la corda, fino a voler identificare gli ultimi gesti dello scrittore con il necessitante destino di un condannato – dannato – dalla sua stessa ispirazione artistica a tradire tutto e tutti, a corrompere spiritualmente chi ha vicino pagando, proprio in ciò, il prezzo della sua opera immensa. Ma questo è (forse) il problema di Coetzee, non quello di Dostoevskij, che fu peccatore e santo (“Il nostro santo!” lo acclamarono alla fine della sua vita), con il démone della letteratura, ma non demonio. Il valido del libro è nel rapporto struggente con il figliastro assentepresente, che a sua volta è presentimento di vita e morte per lo scrittore. Qui Coetzee ha passaggi narrativi grandi: “Quello che non riesce a sopportare è l’idea che nell’ultima frazione dell’ultimo istante della sua caduta, Pavel sapesse che niente avrebbe potuto salvarlo (…). È dalla consapevolezza di essere morto che vorrebbe proteggere suo figlio. Fino a quando vivo – pensa – che sia io quello che sa”; “Che vuol dire credere? Io credo nel corpo a terra, là sotto. Credo nel sangue e nelle ossa. Raccogliere quel corpo spezzato e abbracciarlo: questo significa credere. Credere e amare, la stessa, cosa” Altrettanto valida l’autocoscienza di Dostoevskij scrittore: “Non posso fare altro che vivere (…) una vita dentro la Russia, o con la Russia dentro di me, qualunque cosa la Russia voglia dire. È un destino al quale non mi posso sottrarre.(…) Non è una vita da analizzare da vicino. Anzi non è tanto una vita quanto un prezzo o una moneta. È qualcosa con cui pago per poter scrivere.(…) Pago e vendo: questa è la mia vita. Vendo la mia vita e quella delle persone intorno a me”. Le ultime parole, affascinanti ma troppo ambigue, aprono sulla erratissima deviazione finale, che chiama al discernimento storico prima che artistico.

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