Il piccolo fratello al semaforo

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Kostantinoupoleos, ossia via per Costantinopoli, una delle strade che dal caos del traffico e dello smog dei cinque milioni di abitanti dichiarati di Atene (più la massa non quantificabile di immigrati) conduce fuori, verso il resto del paese fatto di piccole città e villaggi immersi in quel verde che ad Atene si ha avuto modo di dimenticare. Lavavetri, venditori ambulanti degli articoli più impensati, per lo più made in Cina, volti spesso giovani che incrociano lo sguardo degli automobilisti, sorridendo, chiedendo un aiuto per poter tirare avanti. Quante storie dietro a quegli sguardi, storie sconosciute e diverse! E poi una sala della scuola Leondio di Atene: un gruppo di ragazzi, delle diverse parrocchie cattoliche della città, si prepara al Natale. Scuola, sport, amicizie, lezioni di lingua straniera, famiglia e tanto ancora riempie la vita di questi ragazzi. Come preparasi alla festa nel senso più vero, come aprire occhi e cuore a Gesù che viene, non solo nel presepe tra i canti natalizi, ma in ogni prossimo, soprattutto in chi ha più bisogno? Nasce un’idea, una sfida: andiamo, anche se fosse solo per una volta, incontro a quel Gesù, che oggi come allora ci chiede di accoglierlo. Sguardi incerti, titubanti: cosa sarà questa proposta? Come faremo? Dove sono i miei amici? Una spinta di incoraggiamento ed anche i più incerti partono: a gruppi di quattro o cinque andiamo nei punti più diversi della città a cercare Gesù che viene anche oggi. Una casa per anziani, una persona anziana e disabile che vi- ve in stato di semi-abbandono in una specie di ospizio; i marinai stranieri, per lo più africani, che nelle ore di sosta ad Atene si ritrovano in un locale messo a disposizione da una parrocchia; e poi per i più coraggiosi un’impresa del tutto nuova: andiamo sulla via Kostantinoupoleos a cercare i più soli, ragazzi venuti da lontano che vendono qualcosa nelle strade. Al primo incrocio posteggiamo e scendiamo dall’auto con qualche piccolo regalo per loro; un nugolo di persone ci circonda incuriosito. Il greco non serve per comunicare. Inglese? Poco, ma meglio di niente. Entriamo in un mondo inimmaginabile per i nostri ragazzi. Il pomeriggio ci si ritrova. Ognuno racconta l’esperienza vissuta ed i frutti sono tanti. Ma l’avventura non si ferma lì. In quei volti, per lo più fisionomie caratteristiche di Bangladesh e Pakistan, c’è ne è uno che non ci ha dimenticato. Norul Amin, quel giorno ha fatto tante domande, ha raccontato tanto di sé. È iniziato così un dialogo. È solo al mondo, è cresciuto in un orfanotrofio. Poi il vagare a piedi e con mezzi di fortuna lo ha condotto, attraverso vari paesi tra cui Iran e Turchia, fino alla Grecia. È pure finito in carcere, non avendo i documenti in regola, naturalmente. L’Europa è la sua speranza; ma anche qui le difficoltà non tardano a farsi attendere: il permesso di soggiorno, che è solo un foglio pieno di timbri, è un eufemismo dirlo provvisorio, deve essere rinnovato ogni 15 giorni, con file interminabili, spesso sotto il sole cocente. Norul non vuole aiuto materiale, vuole la nostra amicizia. Anche per noi è Gesù dietro quel volto che ci chiede di essergli vicini. A volte basta anche sentirci per telefono e, in un inglese originale che ormai è diventato standard tra noi, fatto di parole un po’ arrangiate, qualcuna più greca che inglese, ci comunica le sue difficoltà, le sue conquiste, ma soprattutto desidera i nostri consigli. Vuole agire così come Dio vuole. Un giorno ci telefona, gli chiediamo come è andato il lavoro. Ci racconta che ha guadagnato bene, ma ha pensato che non è giusto avere tanti soldi, potrebbero diventare troppo importanti per lui; invece più importante è Dio. Allora ha pensato di mandare una somma ad un orfanotrofio in Bangladesh, perché lì di sicuro hanno più bisogno di lui. Gli consigliamo di inviarne una certa cifra ed il resto di metterlo da parte; nella sua situazione infatti, non si sa come sarà il domani. Ci richiama. Si scusa: questa volta, non è riuscito ad ascoltarci fino in fondo, ha mandato all’orfanotrofio tutti i suoi soldi, al domani ci penserà Dio. È per noi una vera lezione. Un altro giorno una signora curda passava vicino a lui: Ha dei bambini, è più povera di me, ha pensato, ed ecco che subito le dà parte dei suoi guadagni. E poi una donna greca viene derubata della sua borsa davanti allo sguardo di Norul, e lui non riesce a restare indifferente: è una persona che ha bisogno di aiuto. Corre, riesce a recuperare la borsa ma viene picchiato duramente mentre cerca di trattenerla. Alla fine riporta la borsa alla proprietaria, non importano le sue ferite, l’importante è che la signora sia ora più tranquilla. Non sarà l’unica volta in cui Norul viene picchiato, ora dalla polizia, ora da altri più sfortunati di lui. Ma lui non reagisce, ha imparato che la violenza non porta a niente. Ho tanti amici – ci dice – perché ora tutti sanno che io non litigo e non reagisco alle provocazioni, voglio solo aiutare ed essere amico di tutti. Un sabato mattina una telefonata: un ragazzo che parla ancora meno l’inglese di lui ha problemi con un conto in banca che non sa cosa sia, ha paura della polizia, ha paura di tutto. Non preoccuparti – gli ha detto Norul – le mie sorelle ti aiuteranno. Ci incontriamo al centro della città, insieme cerchiamo di risolvere il problema, ci vorranno più giorni; ma poi tutto è a posto. È commovente vedere con che attenzione lui cerca di stare vicino a questo ragazzo spaventato, che non parla altra lingua oltre a quella del suo paese, che in fondo anche lui conosce poco. Le sue condizioni di salute non sono buone, si capisce guardandolo, ma come fare, chi sarà disposto qui a visitarlo? Little brother, così a lui piace essere chiamato, non ha nessun tipo di assicurazione poiché lavora in una situazione irregolare. Giriamo da un ospedale all’altro e alla fine si apre una porta: i medici di un grande ospedale cittadino, sono organizzati ad affrontare le malattie infettive. Viene diagnosticata una forma di tubercolosi non attiva, il programma di cure e di visite è del tutto gratuito. Spesso andiamo a trovarlo, lì al suo semaforo; ci aspettano due occhi luminosi ed un sorriso che è difficile dimenticare. Al rallentare della nostra automobile si avvicina con i suoi gesti gioiosi di saluto; in un attimo consegna ai suoi compagni la sua merce e ci corre incontro e con lui andiamo in un misero locale dietro l’angolo: un aranciata seduti ad un tavolino non può mancare, lui deve offrire qualcosa alle sue sorelle. E poi si parla a lungo, lui racconta e chiede, il discorso spesso diventa profondo e si parla di Dio, di quel Dio che lui conosce poco ma che vuol seguire e del quale si fida ciecamente, qualsiasi cosa la vita gli offra. Le Olimpiadi ormai vicine non sono un grande evento per i venditori ambulanti; bisogna sgombrare le strade della città e la polizia in più modi controlla e vieta qualsiasi loro presenza. Cosa fare? Norul è senza nessuna possibilità di guadagno. Bussa ad infinite porte ma niente da fare. Chiediamo, cerchiamo, lavoro non se ne trova. Non preoccupatevi, Dio ci penserà, dice lui. Dopo qualche giorno una telefonata. Ha trovato lavoro stagionale nei campi. Si lavora tanto e si guadagna poco, ma è meglio di niente. Ma l’amore è contagioso; una signora, dopo averci sentito parlare di lui, ci consegna 50 euro come suo contributo per Norul; un ragazzino ha ricevuto in dono un po’ di soldi in occasione della sua prima comunione e una parte la manda proprio al nostro amico Norul che al riceverli vuole vedere la sua foto, conoscere questa famiglia che forse ora sente un po’ anche sua, lui che non ne ha una propria. Legami nati dall’amore che superano i chilometri, i mari e le montagne. Alla scuola italiana è appena terminata una festa, mentre i ragazzi escono da scuola; girando tra le classi i tavoli sono ancora pieni di bibite, dolci e cibo. Alcune mamme si occupano di raccoglierlo e selezionarlo e poi la macchina è carica andiamo ai semafori, e dopo i primi attimi di diffidenza ci riconoscono come le amiche di Norul e… c’è cibo per tutti. L’indomani la voce è passata, e tanti chiedono di sapere cosa abbiamo fatto dopo la festa con tutto quello che era rimasto. È l’occasione per parlare di queste persone che hanno lasciato la loro terra in cerca di fortuna; il discorso diventa coinvolgente, si aprono mente e orizzonti verso chi ha più bisogno, si depositano semi di una cultura di pace e fraternità nei cuori di tanti ragazzi. Un domanda si fa spesso presente in noi: sarà bene invitarlo a casa nostra? Dopo un po’ di tempo ci sembra che sia arrivato il momento giusto e glielo proponiamo. Non sappiamo immaginare la sua reazione. Accetterà? Accoglie la proposta con immediata adesione, e così una domenica a mezzogiorno arriva da noi. Ha indossato i suoi migliori vestiti e si è anche tagliato i capelli. Condividere il pasto è anche condividere racconti e fatti; non abbiamo soluzioni da dargli, un lavoro o un permesso di soggiorno per lui. È vero; eppure alla fine di quella giornata è nato un rapporto nuovo, di fiducia più piena, di apertura.

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