Il coraggio di Christian e Marianne

Provati, ma non abbattuti, grazie alla loro fede. La testimonianza di una giovane coppia di rifugiati politici.
Illustrazione di Valerio Spinelli

Più d’una volta avevo notato sul mio stesso autobus un papà africano insieme al suo bambino di forse quattro anni, vivace quanto lui era paziente. Dopo qualche tempo è venuto spontaneo salutarci, scambiare qualche parola. Christian (il nome del papà e pure del bambino), l’ho conosciuto così. Solo più tardi ho scoperto il dramma della sua famiglia, quando, nata un’amicizia anche con sua moglie Marianne, ho ascoltato in un alloggio all’ottavo piano di un edificio occupato la loro storia di rifugiati politici, che s’intreccia alle vicende della Repubblica democratica del Congo: un Paese che, a partire dall’indipendenza coloniale nel 1960, è ancora senza pace per un susseguirsi di governi assoluti, violenze e rappresaglie, incursioni e razzie con conseguenti massacri di civili.

 

«Sono di Kinshasa – inizia a raccontare Christian, tra gli strilli gioiosi dell’ultimo nato –, avevo trent’anni quando ho conosciuto Marianne. Dovevo tenere una lezione d’informatica nella scuola di lingue gestita da un amico quando ho visto arrivare una bella ragazza. “La vedi quella? – gli ho detto –. Io devo sposarla”. Lui è scoppiato a ridere: “Che vai dicendo? Tu corri troppo!”. Ma io insistevo, qualcosa mi suggeriva che era la donna della mia vita. Intanto lei si era avvicinata e l’amico le fa: “Marianne, questo tipo sostiene che ti sposerà, ma tu non dargli retta…”. Lei pure l’ha presa sullo scherzo, poi è andata a lezione (frequentava il corso d’inglese). L’ho aspettata fuori della scuola: volevo spiegarle che la mia intenzione era seria. In breve, le cose sono andate avanti finché abbiamo concordato i punti basilari su cui formare una famiglia».

 

Nel gennaio 2001 il presidente Laurent-Désiré Kabila viene assassinato e gli succede il figlio Joseph, ma nel Paese, già teatro di scontri ed esecuzioni, l’intrusione di bande esterne peggiora la situazione. Chi nel precedente regime ha avuto un certo ruolo è costretto a scappare per non essere eliminato dagli avversari del clan al governo. E fra questi anche Christian, avendo lavorato nelle forze speciali dell’esercito al tempo del defunto presidente. Prima però, accusato di propaganda antigovernativa, sperimenta il carcere e la tortura, scampando alla morte per un pelo.

 

 «Per maggiore sicurezza Marianne ed io, sposi già dal luglio di quell’anno, ci siamo divisi: mentre io riparavo nell’Alto Congo e più tardi in Angola, lei andava a vivere presso una sua sorella un po’ lontano dalla capitale. Cercavamo di sviare le ricerche sui nostri movimenti cambiando spesso posto. Per fortuna avevamo amici disposti ad aiutarci dandoci ospitalità.

«Nel novembre del 2001, per costringermi a uscire allo scoperto, chi mi era avverso ha infierito crudelmente suoi miei genitori: dopo aver ammazzato mio padre, hanno violentato mia madre, cavandole un occhio. Attualmente, cieca anche dell’altro per una sopraggiunta infezione, vive in Congo assistita da mia sorella. L’ultima volta che sono riuscito a vederla, mi ha detto: “Vai, pensa ai tuoi, non occuparti di me. Io ho già vissuto la mia vita. Dio si prenderà cura di me”.

 

«Sì, ho avuto genitori molto credenti, da cui ho imparato tanto. Il loro ricordo è più straziante in quanto mi sento un po’ responsabile dell’accaduto: cosa avevano fatto per soffrire così? Non devo pensarci, altrimenti mi manca il coraggio per andare avanti, e questo non posso permettermelo per amore di mia moglie e dei miei figli. In questa tragedia Marianne è stata il mio vero sostegno morale. Non finirò mai di ringraziare Dio per averla conosciuta! Anche lei ha rischiato la vita. Sai, in Occidente se uno è in debito verso la giustizia, la cosa riguarda solo lui, ma da noi è diverso: ne va di mezzo tutta la famiglia, tutti corrono rischi di rappresaglia.

 

«Nel 2004 è nato Christian e l’anno seguente una bambina, Allegresse. Che dopo pochi mesi però ha manifestato preoccupanti problemi di salute. Secondo i medici non sarebbe vissuta, a meno di cercare per lei qualche struttura specializzata all’estero. Qualcuno allora ci ha suggerito l’ospedale Bambin Gesù di Roma. Così ci siamo di nuovo divisi: mia moglie è partita con la piccola, mentre io sono rimasto in Congo con l’altro figlio.

 

«Intanto, lo stesso anno in cui era nato il nostro primogenito, era iniziata una grave crisi dovuta ai ribelli di Laurent Nkunda nel Nord e nel Sud Kivu. Siccome la situazione tornava a essere pericolosa anche per me, da amici italiani che lavoravano all’ambasciata d’Italia sono stato aiutato a espatriare, tanto più che per la bambina le cose non andavano affatto bene: piccola com’era, ha dovuto subire diversi interventi al cuore. Era l’ottobre del 2005 quando Christian e io siamo giunti a Roma, dall’aeroporto un taxi ci ha condotti al Bambin Gesù e lì, nel reparto di cardiologia, ho riabbracciato mia moglie. Quasi non riuscivamo a credere di essere nuovamente insieme».

 

Interviene Marianne: «In ospedale avevo conosciuto una signora di Zagarolo la cui figlia, ricoverata nello stesso reparto di Allegresse, era stata operata lo stesso giorno di lei. La notte non faceva che piangere, così in assenza dei genitori l’ho accudita come fosse un’altra mia figlia. Da quel momento la signora ha voluto provvedere ai miei pasti in ospedale. Due settimane dopo, l’arrivo di mio marito col piccolo Christian. Hanno alloggiato per tre notti accanto all’ospedale, ma all’albergo chiedevano 30 euro per notte che noi non avevamo… Saputo il nostro problema, quella stessa signora mi ha proposto: “Siamo in partenza per le ferie d’agosto, porteremo la bambina in Spagna. Se volete, potete stare nella nostra casa al paese finché siamo via noi”. Pensa, ha messo a disposizione l’appartamento per gente in fondo sconosciuta, provvedendo non solo alle spese per il vitto, ma addirittura all’abbonamento al treno e all’autobus per Zagarolo».

 

«Sì – prosegue Christian –, Dio ci ha sempre aiutato. Anche nel trovare posto presso un centro d’accoglienza alla Laurentina appena tre giorni dopo la registrazione al comune, mentre in genere passano dai due ai sei mesi. E questo proprio in coincidenza con il ritorno di quella famiglia dalla Spagna, quando dovevamo liberare l’appartamento. Purtroppo Allegresse non ce l’ha fatta: è morta il 16 novembre del 2007. Affranti dal dolore, abbiamo però ripetuto con Giobbe: “Dio ha dato, Dio ha tolto”. Marianne poi è andata in depressione ed è stata malissimo anche per altri problemi di salute. Il sorriso è ritornato nella nostra casa con la nuova gravidanza e la nascita di un bambino, Sublime, nel gennaio 2010. Somiglia ad Allegresse, basta vedere le loro foto. Del resto, un giorno Marianne aveva sognato nostra figlia che la consolava, dicendo: “Non piangere, mamma, tornerò”».

 

Il perché di nomi così particolari me lo spiega lei: «Dio è il Sublime per eccellenza; quando pronuncio questo nome, penso a lui. In Congo, costretti a vivere da fuggiaschi, la bambina è nata che il padre era lontano. Ho voluto chiamarla Allegresse nella certezza che Dio prepara un futuro di gioia per quelli che nella sofferenza confidano in lui».

Per quanto precaria, l’attuale sistemazione in un edificio occupato da un centinaio di famiglie la ritengono anch’essa dovuta alla provvidenza. Sono un po’ accampati, è vero, ma l’amore rende tutto più semplice e sopportabile. Diversi mobili e oggetti necessari sono stati regalati da persone amiche, venute a conoscere questa storia.

 

In attesa che si concretizzi l’offerta all’estero di un lavoro finalmente adeguato ai suoi studi e alle sue capacità, Christian fa il vigilante presso una catena di negozi di abbigliamento. Pesano molto i turni e le distanze, ma per lui ogni sacrificio è poco rispetto a quello che hanno passato. «Non è facile la vita – conclude –. Ogni cosa va guadagnata col sudore, lo dice anche la Bibbia. Mai scoraggiarsi però! È necessario lottare essendo ottimisti. Questo insegnamento dobbiamo lasciare ai nostri figli».

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