Il balzo cinese e i contraccolpi sull’Italia

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Le industrie dell’acciaio italiane, dopo aver fermato i propri impianti per la produzione di carbone coke perché inquinanti, si sono ultimamente viste negare il coke cinese, a meno di non pagare un prezzo dieci volte più alto, perché adesso serve al mercato interno: nelle città cinesi i grattacieli di acciaio spuntano come funghi. L’economia cinese cresce del 7 per cento all’anno, una crescita che applicata ad un paese di oltre un miliardo di persone comporta ogni anno un maggior consumo di acciaio di 30 milioni di tonnellate, tanto quanto ne produce l’Italia. Oltre a non esportare più il coke, la Cina per produrre più acciaio sta anche rastrellando in tutto il mondo il rottame di ferro il cui prezzo è così raddoppiato: altrettanto hanno fatto per simpatia i prezzi di cobalto, nichel, cromo, molibdeno e tungsteno, cioè i metalli duri usati nella finitura di molte lavorazioni metallurgiche. Non c’è da stupirsi se nel frattempo il prezzo dell’acciaio è cresciuto del 30 per cento: lo vedremo nei prezzi delle automobili, degli impianti industriali, delle infrastrutture in cemento armato e di mille altri prodotti. Nulla di drammatico, dirà l’economista, la crescita del prezzo dell’acciaio farà rimettere in funzione anche in Italia impianti che prima erano in perdita ed altri se ne amplieranno, fino a riequilibrare domanda e offerta: poi, con la crescita dell’economia cinese cresceranno anche i consumatori dei prodotti italiani. Tutto vero. Ma fa una certa impressione vedere quanto le vicende economiche di paesi assai lontani ci possano toccare così da vicino, in un momento in cui la concorrenza dei loro prodotti, non sempre corretta, e legata al loro bassissimo costo del lavoro, ci sta mettendo in difficoltà. I nostri fiori all’occhiello, quei distretti industriali che tutti ci invidiavano – dell’abbigliamento, delle scarpe, dell’arredamento, delle piastrelle, degli alimentari – e che negli ultimi decenni avevano fatto in modo che la nostra economia continuasse a crescere anche senza la presenza di una grande industria, stanno andando in crisi. Sul mercato esistono prodotti di qualità quasi pari provenienti da Cina, India, Brasile, Malesia e Indonesia, dove si produce a costi imbattibili. Non basta l’impennata del cambio euro/dollaro per spiegare la nostra crisi: con i mercati di tutto il mondo in crescita, eccetto l’Europa, le nostre aziende non sarebbero così in difficoltà solo per l’euro, se sul mercato internazionale non esistessero a prezzi inferiori prodotti simili ai nostri. Non stiamo quindi solo attraversando un momento difficile, ma siamo all’inizio di un periodo difficile. Non basterà aspettare che passi ‘a nuttata: se vogliamo uscirne sarà necessario riattivare tutte le nostre doti umane, tutta l’inventiva imprenditoriale, tutta la capacità di innovazione e la capacità di rapportarsi con culture diverse dalla nostra, che è propria del nostro paese. In questo frangente, che tocca anche gli altri paesi europei, come reagisce l’Unione europea? Essa giustamente punta a incoraggiare la ricerca e l’innovazione. Per continuare a vendere prodotti fabbricati ad un costo compatibile col livello di vita europeo occorre infatti che essi valgano il loro maggior costo: un maggior valore che non può venire che dall’affinamento della tecnologia e dalla creatività legata a secoli di industriosità europea. A mio parere, però, i programmi di ricerca finanziati dall’Europa sono orientati troppo verso alcuni nuovi settori – un po’ di moda -, che magari daranno frutti fra dieci anni, e si è meno attenti a favorire la ricerca applicata a settori tradizionali, che potrebbe dare frutti in tempi più brevi. E come reagisce invece il nostro governo, viste le manifestazioni dei sindacati, preoccupati per l’economia? Il governo promette meno tasse ed uguali per tutti; promette cioè di abolire l’attuale tassazione che cresce progressivamente con il reddito, sposando l’economia dal lato dell’offerta, secondo cui è vantaggioso per tutti lasciare più ricchezza a chi la sa produrre, perché così egli sarà invogliato a produrne ancora di più: un enunciato economico che aveva affascinato Reagan ed ancora affascina Bush, che ha reso gli Stati Uniti il paese più indebitato del mondo ed ha grandemente contribuito a far crescere a livelli insostenibili i debiti esteri dei paesi del Terzo mondo. Reagan si era convinto di questo assioma costatando che, se da attore faceva più di tre film all’anno, alla fine guadagnava di meno, perché aumentavano spropositatamente le sue imposte; ma non aveva poi studiato a fondo se il suo maggior guadagno avrebbe migliorato l’economia del suo paese. Riducendo le imposte a chi fa fatica ad arrivare alla fine del mese, certamente si aumenteranno i consumi, ma le minori imposte dei ricchi finiranno per alimentare l’economia finanziaria, che guadagna come un parassita senza produrre e senza pagare imposte, spesso contribuendo a portare fuori strada l’economia reale. Se l’imposizione massima sui redditi scendesse in Italia al 33 per cento come promesso dal nostro primo ministro, egli su un reddito di 12,7 milioni si troverebbe un regalo dello stato pari a 1,5 milioni di euro, mentre milioni di famiglie di classe media, probabilmente si troverebbero in tasca in media mille euro ciascuna, che si potrebbero subito trasformare in consumi se questa riduzione delle imposte inducesse ad un aumento di fiducia nel futuro. È invece difficile che il nostro primo ministro, pur volendo utilizzare per il bene pubblico questa vincita al lotto, comperi migliaia di vestiti o paia di scarpe: lasciar più soldi ai ricchi non aiuta l’economia come distribuirli alle famiglie: molto più valida appare la proposta del vice primo ministro Fini, di ridurre, sempre che si trovino le risorse per farlo, le imposte sulle categorie medio basse. In questo modo si dà un segnale di equità che aumenta la fiducia e quindi le aspettative per il futuro. Se tale riduzione verrà realizzata, essa servirà a dare impulso ai consumi interni, ma non servirà a prepararsi ad un cambiamento dei rapporti di forza economici a livello mondiale: le aziende italiane di media e piccola dimensione, attente prima ancora dei politici al cambiamento, non stanno certo con le mani in mano, ma sarebbe molto utile aiutarle ad affrontare tempi tempestosi, finanziando le loro attività di ricerca, di formulazione di nuovi prodotti, ed anche sostenendole nella loro penetrazione commerciale internazionale: due settori a cui purtroppo negli ultimi due anni, invece di aumentarli, per rastrellare risorse necessarie a farci rimanere nei parametri di Maastricht, i finanziamenti sono stati tagliati. Come anche quelli per la ricerca universitaria. Quanto ai parametri di Maastricht, mi sembra sia difficile condurre una politica economica di sviluppo rimanendo entro un deficit di bilancio del 3 per cento, soprattutto dovendo pagare come l’Italia gli interessi su un enorme debito del passato, in un periodo in cui l’economia e quindi le imposte, non crescono. Sono parametri imposti con la nascita dell’euro da Germania e Francia, sospettose di battere moneta assieme ad una Italia da sempre spendacciona, e che guarda caso non sono rispettati nel 2003 proprio da Francia e Germania e nel 2004 probabilmente da una intera schiera di paesi. Non hanno avuto scrupolo a superare tale limite di bilancio gli Usa che, dopo il crollo della borsa americana, per rilanciare l’economia hanno inondato di dollari il paese portando all’1 per cento il costo del denaro: eppure proprio dagli Usa abbiamo ereditato una estrema paura dell’inflazione, possibile conseguenza di deficit più alti. Paura legittima in periodi di forte sviluppo, meno giusta a mio parere quando si devono affrontare sfide di cambiamento, anche al costo di mettere un po’ a rischio propri beni e certezze. Superare tali parametri, tuttavia, ed una eventuale maggiore inflazione penalizzerebbero per prima proprio l’Italia, visto l’enorme debito che si porta appresso: però lo stato, per aiutare l’economia senza indebitarsi maggiormente dovrebbe poter ridurre le sue spese, che sono in altissima percentuale costituite dagli stipendi dei suoi impiegati. Una strada utile potrebbe essere quella di chiedere ai lavoratori di continuare a guadagnarsi lo stipendio per qualche anno in più prima di mettersi a riposo, con la riforma delle pensioni. Se invece si riducesse il numero degli statali, si ridurrebbero con i posti di lavoro i denari da spendere, penalizzando i consumi. Si possono invece ottenere maggiori servizi aumentando la produttività, ad esempio con contratti dei dipendenti pubblici assimilati a quelli privati, eliminando privilegi come orari di lavoro ridotti, ferie di lunghezza spropositata o tagliando le spese delle cure termali per chi non è davvero malato. Un altro capitolo, con cui si potrebbe far crescere l’economia in modo più umano, è stipulare un vero patto tra stato, aziende, organizzazioni della società civile e famiglie, per realizzare una vera sussidiarietà: non più vista come una formula per trasformare i servizi pubblici in aziende private a servizio solo di chi può pagare, ma letta nel suo vero significato di democrazia compiuta, in cui lo stato privilegia i beni pubblici gestiti a vantaggio della comunità gestiti dai cittadini e dalla società civile. Uno stato leggero che finanzia, risparmiando moltissimo, gli asili, la cura degli anziani e le produzioni di energia rinnovabile di caseggiato o di azienda, che privilegia nei lavori pubblici le cooperative nate dalla solidarietà dei cittadini per i disagiati, che valorizza, con grande senso del bene comune, le mille cose che la solidarietà e la fraternità tra cittadini sapranno escogitare, inventando soprattutto tanti, inaspettati nuovi posti di lavoro. Posti di lavoro non solo per produrre merci, ma anche per creare rapporti, beni relazionali a cui spesso è legato il vero benessere, la felicità della persona.

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