I boat people del Mediterraneo

I bollettini di guerra che per tutta l’estate hanno accompagnato le nostre vacanze provenivano quotidianamente da tre fronti diversi. Quelli arrivati dall’Iraq tenevano il conto della carneficina generata da quel conflitto divenuto da tempo ormai guerra civile e di religione. Ogni giorno alcune decine di vittime. Il secondo conflitto, quello israelo-palestinese, si era esteso al Libano con tutte le caratteristiche di una vera guerra fra Stati, con un migliaio di vittime e con centinaia di migliaia di profughi, distruzione di infrastrutture, industrie e abitazioni civili; Il terzo fronte era ed è quello – apparentemente pacifico, ma di fatto il più cruento – rappresentato dalla biblica transumanza dei diseredati che dall’Africa cercano con ogni mezzo di raggiungere le sponde meridionali dell’Europa. Paradossalmente il contrasto a questo grande travaso di popoli non è violento, non è militare, è quasi solo diplomatico, nei confronti dei Paesi di provenienza o di transito.Ma è a tutt’oggi del tutto inefficace, mentre i militari vengono impiegati soprattutto per i soccorsi in mare. Eppure anche questo, che chiameremo impropriamente fenomeno, si propone come una guerra, la più cruenta. Nel solo mese di agosto i morti in mare accertati sono stati infatti almeno tremila, di fronte ai mille della guerra in Libano. E a produrli sono le organizzazioni criminali che gestiscono questo traffico, illudendo prima, e poi abbandonando alla loro sorte questi disgraziati sulle onde infide del Mediterraneo o dell’Atlantico, a seconda che la meta promessa siano le isole meridionali del Vecchio continente (Malta, Lampedusa, Pantelleria) oppure le isole Canarie. Quando un fenomeno analogo si produsse alcuni anni fa attraverso il Canale d’Otranto fra l’Albania e l’Italia, la gestione di quell’emergenza umanitaria venne lasciata all’Italia e, non senza difficoltà, venne assorbita. Era pur sempre, il nostro, un grande Paese, fra l’altro bisognoso di mano d’opera, che ritrovava un rapporto già conosciuto storicamente con un piccolo popolo a lui molto vicino. Con l’Africa le proporzioni si invertono. Sono grandi masse di popolazioni che spinte da necessità vitali si muovono come per un impulso ancestrale. Attraversano foreste e deserti. Lasciano cadere per strada i più deboli e poi si buttano nell’acqua, al di là della quale sanno che troveranno nuovi pascoli. Non importa se quell’acqua è infestata di coccodrilli. Non basterà sparare su quelli, cioè sugli scafisti; non basteranno gli accordi bilaterali con la Libia, né i rimpatri forzati. Riportata al punto di partenza, quella gente si rimetterà in cammino, perché hanno visto come si vive da noi. Ora, da quando anche la Grecia,Malta, il Portogallo e soprattutto la Spagna stanno avvertendo sulla loro pelle i disagi e la lacerazione morale in cui si dibatte l’Italia, lasciata a lungo sola in questa emergenza dai partner europei, qualcosa si muove. Solo nelle sue nuove dimensioni continentali l’Europa unita potrà infatti rapportarsi costruttivamente con l’intero continente che le sta di fronte: fare rinverdire quei pascoli, recuperare quegli equilibri che possano assicurare un futuro agli africani e a noi il giusto modo di rapportarci con loro. Forse non è nuova questa prospettiva. Potrebbe esserlo, ce lo auguriamo, la determinazione con cui si incontreranno nei prossimi giorni i delegati europei incaricati di avviare verso soluzioni concrete questo problema. L’Europa ha bisogno dell’Africa come l’Africa dell’Europa.

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