Guardare con gli occhi di un “idiota”

Viaggio nel mondo contadino del Telemark con “Gli uccelli”, capolavoro del grande scrittore norvegese Tarjei Vesaas.

Contea del sud-est della Norvegia, con le sue colline, vallate e fiordi il Telemark offre un paesaggio molto frastagliato e vario. Tra i figli illustri di questa regione contadina, dove folklore e tradizioni popolari sono ancora molto sentite, va ricordato – insieme a Sondre Norheim, l’inventore dello sci moderno “a tallone libero”, detto appunto Telemark – uno dei grandi della letteratura norvegese del XX secolo, che per ben tre volte ha sfiorato il Nobel: Tarjei Vesaas. Nato nel 1897 a Vinje, uno dei diciotto comuni del Telemark, dopo un esordio letterario secondo il modello neoromantico fornito da Knut Hamsun e da Selma Lägerlof, Vesaas ha espresso la sua vena migliore in romanzi di tipo realistico-simbolico quali Il castello di ghiaccio, Gli uccelli, L’incendio, caratterizzati da uno stile scarno ed essenziale, e dall’uso di un linguaggio popolare e diretto. Ha firmato anche drammi, radiodrammi e raccolte di novelle (tra cui I venti e Un bel giorno), sempre alternando all’attività letteraria quella di agricoltore. È morto nella sua Vinje nel 1970.

Tra i capolavori della maturità spicca Gli uccelli del 1957, ambientato in un imprecisato villaggio immerso in quella natura tanto amata dallo scrittore. Due i personaggi principali, solitari abitanti di una baita ai margini di un bosco, presso un lago: Mattis l’idiota e la sorella Hege, instancabile lavoratrice di maglioni con i quali procura di che vivere a sé e al fratello. Un forte legame li unisce, malgrado lei sopporti con difficoltà le stranezze di lui. Vani i tentativi di Mattis per rendersi utile e integrarsi nella vita locale: pur dimostrando benevolenza e comprensione verso il giovane, gli abitanti di quel piccolo mondo rurale non possono fare a meno di considerarlo lo “scemo del villaggio”.

Viene in mente L’Idiota di Dostoevskij, «un uomo assolutamente buono»: così egli lo definiva in una lettera del 1867 mentre il romanzo era in lavorazione, dove l’aggettivo russo da lui usato indica al tempo stesso lo splendore della bellezza e della bontà: dunque il principe Miskyn, l’idiota, nelle intenzioni di Dostoevskij personificava la bellezza della perfezione morale.

Diverso è l’idiota di Vesaas: non che Mattis non sia un buon ragazzo, ma è soprattutto un semplice, un emarginato e un disadattato, capace però –  nota l’Editore – «di sentire con immediatezza ciò che sfugge alla comprensione altrui: il fluttuare della nebbia, il battito di un’ala, il calare della sera, ma anche le pause e i silenzi che rivelano l’inconsapevole o l’inespresso nei rapporto umani»: uno il cui «sguardo di sognatore smarrito gli fa vedere attraverso una lente d’ingrandimento quello che non vedono “i forti e gli intelligenti”. Impercettibili gesti, occhiate, incontri, temporali, le impronte di una beccaccia, l’invisibile scia luminosa lasciata da un volo d’uccelli sono messaggi cifrati in cui legge presagi di gioia o dolore».

Puro di cuore qual è, Mattis viene solo abbagliato, senza alcun desiderio erotico, dalla femminilità di due giovani villeggianti che gli dimostrano un po’ di amicizia per poi sparire dalla sua vita, lasciandogli un dolce ricordo. Basta così poco, un attimo di contemplazione, per renderlo felice!

Altro effetto ha invece l’arrivo di Jørgen, il tagliaboschi. Ne è infatti sconvolto il monotono ménage dei due fratelli: e mentre Hege da appassita zitella rifiorisce nell’amore per lui, Mattis – non più al centro delle attenzioni della sorella – avverte di essere diventato per i due innamorati un ingombro da lasciare prima o poi al suo destino.

«Condannato a soffrire, della sofferenza altrui come della propria solitudine e, come la sua beccaccia, a rimanere vittima dell’indifferenza e dell’implicita violenza della vita», il giovane decide di sparire dalla vita di Hege e Jørgen, per i quali l’unica soluzione è che lui impari un lavoro per rendersi indipendente. E arriva a concertare un piano con tale accuratezza da sentirsi una volta tanto fiero di sé stesso, “intelligente”. Per la prima volta sarà lui a prendere in mano la sua vita e a donarla. Abbandonato, ha il coraggio di dichiarare alla luna, nell’ultima sua notte: «Io ho abbandonato tutto». Sul lago deserto che si richiude su di lui il grido finale di Mattis è «come il grido di un uccello sconosciuto».

Tragico e insieme delicato, il romanzo di Vesaas (edito da Iperborea) riesce a farci guardare al mondo con gli occhi di un “idiota”, uno che scopre cose, realtà che gli altri non vedono. Forse d’ora in poi saremo capaci di contemplare un volo di uccelli non più come prima.

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