Gli ottant’anni di Carlo Lizzani

Carlo Lizzani, personalità poliedrica del nostro cinema. Si ha quasi il timore di dimenticare qualcosa! Regista, sceneggiatore, storico, saggista, attore. Ha ricoperto numerosi e prestigiosi incarichi pubblici, tra i quali la direzione della Biennale Cinema e la presidenza dell’Anac, storica associazione degli autori cinematografici. Scorrendo la vita professionale del maestro Lizzani, si avverte che la promozione del cinema è stata quasi una “vocazione”, al di là della carriera personale. Per festeggiare i suoi ottant’anni il comune di Roma e Cinecittà Holding hanno organizzato, il 3 aprile scorso, una cerimonia pubblica in Campidoglio alla presenza del sindaco di Roma, Veltroni, con interventi e testimonianze di critici, attori e collaboratori. Ci conosciamo con Lizzani. Con lui ripercorriamo a ritroso la sua feconda carriera. Non si può non ricordare il suo esordio, come aiuto-regista di Rossellini sul set di Germania anno zero, uno dei capolavori del neorealismo. Proprio in questa circostanza hai conosciuto tua moglie Edith, pittrice e costumista. La vostra unione dura da 54 anni, una rarità nel mondo dello spettacolo. Cosa ricordi del vostro incontro? È vero che fu lo stesso Rossellini a spingerti al matrimonio? “Nel 1947 Rossellini, mentre organizzava la produzione del film, mi mandò a Berlino in avanscoperta. La città sembrava non avere angoli ospitali, appariva lugubre. Eppure, in alcuni caffè dove i giovani si incontravano, si respirava l’aria degli Champs- Elysées o di Via Veneto. Lì incontrai Edith, fu un colpo di fulmine. Ricordo che, in inglese, parlammo di pittura, di Van Gogh, di Gauguin, dell’Impressionismo. Fu una corrispondenza “magica”, una comunicazione immediata. Quando iniziammo le riprese, Edith venne sul set e Rossellini chiese subito: “Quando vi sposate?””. Tra le macerie e le conseguenze ineluttabili che ogni guerra porta con sé, quali i tuoi interrogativi? “Allora a molti giovani parve impossibile che l’umanità potesse ricadere in un tale orrore. Quelle macerie per me dovevano rimanere memoria di un passato a cui non si sarebbe più tornati. Certo, molti passi in avanti sono stati fatti. L’unità europea ha rimarginato tante ferite, eppure in questi anni altri conflitti ci rimandano immagini simili a quelle della Berlino di allora”. Pensi all’11 settembre? “Sì, dopo questo tragico evento ho istintivamente auspicato un grande processo di collegamento tra le due grandi culture, occidentale ed islamica, per trovare insieme le soluzioni, dal momento che le guerre lasciano non solo macerie fisiche, ma ancor più “macerie dentro le anime”. Sei stato per un anno in Cina, nel ’57, per realizzare il documentario “La muraglia cinese”. Quanto conta per te la conoscenza delle altre culture? “Per me si trattò di un’occasione di incontro e di scontro fra culture, nel senso che in Cina entrai in crisi sulle prospettive che mi stavano guidando. Mi resi conto che il marxismo, agganciandosi al mondo contadino, stava percorrendo vie lontanissime che culminarono poi in grandi errori, quali la rivoluzione culturale. Mi posi molti interrogativi e mi parve che la comprensione tra le varie culture del mondo sarebbe stata prioritaria rispetto alla lotta di classe. La sfida del secolo venturo. E mi sembra di aver visto giusto! Il mondo è diviso in diverse grandi famiglie e vanno creati ponti di comprensione: solo così si può pensare ad una soluzione unificante. Ritengo sia l’unica chiave possibile, poiché ogni cultura ha in sé delle ricchezze straordinarie”. Veniamo in particolare al tuo cinema, così fortemente interessato alla cronaca ed alla storia… “Il discorso sul mio cinema rientra in quella che è la natura di ognuno di noi. Anche nelle letture ho sempre preferito il memoriale al romanzo. Non che non abbia amato Kafka o Dostoevskij. Nel cinema, ad esempio, amo Buñuel, ma capisco che non è la mia strada. Dietro la mia generazione, c’è questa cultura che ci ha nutrito e fatto sì che il Neorealismo non fosse una forma di naturalismo, ma una grande rivoluzione formale. Rossellini, De Santis, Visconti o De Sica non erano dei naïf. A me interessava più la Storia che inventare delle storie. Ho seguito così una strada personale che mi ha condotto verso la cronaca o verso romanzi particolarmente ispirati ad “una presa diretta” sulla vita quotidiana, anche piccola: quella degli umili”. Il tuo ultimo lavoro “Maria José” è stato un evento televisivo di grande successo. “Maria José deriva da questa mia passione per la storia. Ho alternato, a parte alcune fughe per esplorare altri generi, il racconto storico visto sia dalla parte degli umili che da quello dei protagonisti del potere e mi è parso sempre molto interessante scoprire il ruolo svolto dalla donna nell’uno e nell’altro caso. Spesso nei miei film il racconto è sviluppato attraverso personaggi femminili”. In una delle tue prime apparizioni, nel film di Vergano “Il sole sorge ancora”, eri un sacerdote che finiva fucilato con un partigiano (Gillo Pontecorvo). È possibile ipotizzare che questa scena trovi una qualche ispirazione nell’iconografia della Passione? “Si tratta di una delle sequenze più belle del cinema italiano, non per la mia interpretazione, ma perché fu concepita con un andamento corale straordinario. Il rapporto tra individuo e coro è un modulo espressivo che ricorre in molti film neorealisti e specialmente in quelli di De Santis, che con Vergano aveva curato la sceneggiatura. Il crescendo di litanie che parte da una voce sommessa, lo ritroviamo anche in Riso amaro e Non c’è pace tra gli ulivi, dove una rivolta o una implorazione partono da una voce che diventa coro. Riguardo al legame con la Passione, credo di sì, anche se De Santis era un artista profondamente laico. Il suo legame con la civiltà contadina gli faceva trovare ciò che sicuramente ha una radice unica e che, da una parte, è la coralità con cui è stata spesso rappresentata la Passione, e dall’altra è l’interesse per eventi che hanno natura corale, sollecitato in tanti artisti laici. La stessa caduta era stata concepita in chiave simbolica. Io dovevo cadere per primo e Gillo trasversalmente su di me in modo che i nostri due corpi formassero una croce”. Ti sei occupato di saggistica e di teoria dell’immagine nel tuo bel libro “Il discorso delle immagini”. Cosa pensi che le nuove tecnologie abbiano immesso di positivo negli scenari del mondo della comunicazione e quali le eventuali insidie? “Sin da quando ho cominciato ad occuparmi dello sviluppo del linguaggio cinematografico in riferimento alla rivoluzione elettronica ho sempre cercato un punto di equilibrio fra posizioni estreme. Non ho visto più un “sipario di ferro” tra cinema e televisione, anzi un processo liberatorio dell’espressione. La televisione può realizzare racconti più lunghi ed infatti nella Biennale immisi anche prodotti televisivi che avessero però “una visione d’autore” come Berlin Alexander Platz di Fassbinder, della durata di dodici ore. Come nella letteratura esistono il racconto ed il romanzo o in pittura la miniatura e l’affresco, così, attraverso le nuove tecnologie, il linguaggio delle immagini è diventato molto più articolato. Ritengo che l’aspetto negativo sia rappresentato dal rischio di omologazione, di semplificazione, che considero uno dei massimi pericoli. La tecnologia va usata con la stessa cautela e saggezza con cui si sono utilizzati la scrittura e tutti gli altri mezzi di comunicazione”. In questo processo di alfabetizzazione audiovisiva, come vivi l’insegnamento? “Dall’esperienza di Venezia e del libro sono derivati una serie di punti fermi che mi sostengono nel rapporto con gli allievi che incontro alla Nuct (Nuova università del cinema e della televisione) o in altri seminari. Consiglio sempre di scoprire in loro stessi la tendenza che li porta ad esprimersi in immagini piuttosto che con la pittura o con la scrittura. E aggiungo sempre che bisogna frequentare altri linguaggi. Non pensare che quello audiovisivo sia l’unico ed il più alto. Anche dietro uno spot di trenta secondi vi è una scrittura”. Quando ti è stata affidata la direzione del settore cinema della Biennale, la Mostra sembrava aver esaurito la sua funzione. Quali le scelte per ridarle nuova vita? “La mia idea fu vincente perché mi avvalsi della ricchezza di contributi che seppero darmi tanti giovani che avevano una visione del cinema diversa, ma che unita alla mia produsse una miscela esplosiva positiva. Mi piacque anche creare strutture nuove dal punto di vista del contatto con il pubblico. Esse determinarono l’afflusso di masse di giovani che il Festival di Venezia non aveva mai visto prima”. Come operatore culturale sei stato presidente dell’Associazione degli autori. Che esperienza ne hai tratto? “Anche in questo caso, mi sono preoccupato di non imporre una visione che derivasse dall’esperienza solo della mia generazione ma che fosse in sintonia con quei processi che si sono verificati ad opera di altre generazioni. L’asse portante è stato la conquista del diritto d’autore per i cineasti, una novità, e l’intesa con le altre associazioni per ricondurre gli autori ad un’unità di azione”. Hai affermato: “Il cinema mi è servito per entrare in contatto con me stesso”. “Spesso ho detto di non aver subìto il cinema, ma di averne fatto uno strumento per conoscere il mondo. Forse per questo ho realizzato tanti documentari. Ho anche agito in un modo che mi può far definire “autore eclettico”, perché mi sono avventurato su sentieri che erano lontani dalla mia natura prevalente. Il cinema mi ha dato una conoscenza di personaggi, di paesi e mi ha portato esperienze straordinarie in quanto l’ho considerato uno strumento per conoscere la vita, gli uomini, il mondo e non solo un linguaggio d’arte”. Sei in una fase della vita estremamente produttiva, ma forse anche di bilanci professionali ed umani. “Mi interessa ancora produrre sulla storia contemporanea e, per quanto le mie forze me lo consentono, contribuire all’approfondimento della nostra identità. Mi piacerebbe realizzare Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo o Le memorie di Lorenzo Da Ponte. Nel futuro non vedo processi di semplificazione. La più bella metafora della giusta condanna della semplificazione la vedo nella cacciata dal Paradiso terrestre. La saggezza biblica rende palese l’impossibilità per l’uomo di capire il mondo e di risolverne tutti i problemi con un unico gesto risolutivo”.

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