Giovanni Falcone

Ci sono giorni che non passano, istanti che abbiamo vissuto e che sono scolpiti nell’anima di questo nostro Paese. Il 23 maggio del 1992 è uno di questi. Forse non ricordiamo cosa abbiamo fatto lo scorso Ferragosto, se a Pasquetta abbiamo fatto il pic-nic o la gita al lago, ma tutti abbiamo a mente dove eravamo quel pomeriggio di quattordici anni fa. Quello in cui scoppiò l’inferno sulla Palermo- Punta Raisi, il giorno in cui fu ucciso Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo, i poliziotti Antonio Montinari, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. È per questo che il recente film tv di Raiuno ha dedicato solo pochi fotogrammi agli ultimi istanti di vita del giudice, simbolo della lotta alla mafia. Ciascuno forse ha potuto aggiungere a quelle poche immagini i propri ricordi, i pensieri dolenti e irati di allora, la rabbia dentro e la voglia di riscatto. Dal punto di vista narrativo indugiare sulla strage in effetti non avevo senso. È come Michael Moore che in Farenheit 9-11 racconta i momenti dell’attacco alle Torri Gemelle con lo schermo nero e le voci fuori campo della tragedia. Quelle immagini appartengono a tutti, scorrono lente nella mente di chi le ha vissute. Inutile riproporle. E malgrado questo, per quanto la storia di Giovanni Falcone sia forse quella più nota e portata sullo schermo nell’ultimo decennio, guardando la fiction diretta da Andrea e Antonio Frazzi, un pensiero si fa strada: ogni nuova produzione che racconti quella storia ha un senso e una necessità. Guardavo il film in poltrona quando mi si è avvicinata mia figlia. Ha quasi sei anni, frequenta la prima elementare, la sua scuola è intitolata a Falcone e Borsellino: proprio loro. Guarda, sono quei due signori con i baffi, sono amici, uomini coraggiosi, onesti, che sono morti perché il mondo fosse più giusto. Anche a questo servono film come la miniserie di Raiuno: a tramandare un ricordo, a dare un senso ad una targa davanti ad una scuola, ad una lapide al centro della piazza, ad un indicazione toponomastica al centro di un incrocio. Al di là dell’urgenza etica, il film aveva però anche qualità estetiche. Ha potuto contare su due grandi prove d’attore (quella di Massimo Dapporto nei panni di Falcone, ancora più brava la Elena Sofia Ricci in quelli della moglie) e su una narrazione asciutta. In questi casi si è tentati di spingere sul tasto dell’emotività e del ritratto a tutto tondo. Quello interpretato da Dapporto rispecchia invece ciò che Falcone realmente era: un uomo tutto d’un pezzo ma di poche parole, orgoglioso, diffidente, schivo, a volte spigoloso, spesso solo con le sue sigarette. Uno come noi, morto per noi e per un ideale: la legalità.

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