Giorgio Ambrosoli, il volto del Paese migliore

La lezione di un uomo giusto, servitore del bene comune, a 40 anni dal suo assassinio per mano della finanza mafiosa

L’11 luglio del 1979, pochi minuti prima delle 24, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, l’eroe borghese (secondo la felice espressione tratta dal libro del 1991 di Corrado Stajano) fu ucciso a colpi di pistola sotto casa sua, a Milano, dal sicario William Arico, assoldato, secondo le ricostruzioni processuali, da Michele Sindona e Robert Venetucci, condannati entrambi all’ergastolo nel marzo del 1986.

Dal settembre 1974 l’avvocato milanese aveva assunto l’incarico, affidatogli dalla Banca d’Italia, di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, ente di punta dell’impero che Michele Sindona, finanziere siciliano, aveva costruito a partire dagli anni ’60.

La galassia finanziaria costruita dal business man siciliano era un gigante dai piedi d’argilla, un Moloch tipico del capitalismo sfrenato internazionale fatto di scatole vuote, profitti facili e illegali, paradisi fiscali e complicità figlie della subordinazione della politica, segnata dalla guerra fredda, a loschi affari presentati come necessari strumenti per la lotta contro il male.

L’impero sindoniano aveva un’estensione internazionale e una dimensione impossibile da fotografare interamente; dalla Banca Privata Italiana alla Finabank di Ginevra, dalla Fasco di Vaduz alla Herstatt di Colonia, dalla Bankhaus Wolf di Amburgo alla Franklin International Bank statunitense, per finire con società in Italia, Lussemburgo e Svizzera.

Un impero che, dunque, ha poco a che fare con quello che secondo recenti ricostruzioni televisive è stato presentato come un malcostume italiano derivante da un contesto di sovranismo in cui la politica fa quello che vuole perché non ha freni. Ha, invece, molto a che vedere con un’economia finanziaria insaziabile su scala internazionale, che mal tollera i limiti dell’etica e dell’uguaglianza sociale, che cerca solo di accrescere se stessa con una folle, cieca, autoreferenziale volontà di potenza. Se ci furono colpe da parte della politica sono tutte da ricercare nell’incapacità, consapevole o meno, di rendersi indipendente e sovrana rispetto alla faustiana prepotenza finanziaria.

Ambrosoli riuscì a ricostruire il quadro della strategia sindoniana con un lavoro preciso, onesto, attento ai particolari e instancabile; egli si mise interamente a servizio dello stato e del bene comune, senza cedere ad alcun compromesso. Poteva, in quanto liquidatore, limitarsi ad un burocratico lavoro di recupero crediti; decise invece di sfruttare l’occasione per portare il suo personale contributo per un Paese migliore, per mostrare che il bene è perseguibile, che l’onestà quotidiana e professionalmente preparata non è un’utopia né una favola.

giorgio-ambrosoliAccettò fino in fondo la solitudine e il pericolo e decise di dare la vita per il bene dello stato. Fu un padre di famiglia devoto e capace di essere vicino ai suoi tre figli e alla moglie; seppe rincuorarli di fronte alle minacce telefoniche che ricevette i mesi e le settimane precedenti all’omicidio: «Sindona non mi può toccare – li rassicurava – è troppo implicato nella vicenda, sarebbe ovvio, se fossi ucciso, che il mandante sarebbe lui».

Ma, in realtà, fu ben consapevole del rischio che il suo incarico implicava, fin da quando accettò il lavoro di commissario liquidatore; data, infatti, 1975 la lettera che scrisse alla moglie, e che tenne nascosta fino alla fine, per prepararla in caso avvenisse il peggio. È in questo testo che Ambrosoli mostra il suo amore per la famiglia e la sua dedizione per lo stato. Dedizione e amore che ne hanno fatto uno dei grandi santi civili del nostro Paese, seppur, purtroppo, ancora poco conosciuto.

Ambrosoli ha saputo essere un uomo di e per lo stato; oggi, in tempo di guerra civile delle coscienze e in un clima di continua propaganda politica, abbiamo quanto mai bisogno di ricordarlo e di lasciarci ispirare dal suo esempio. Fu lasciato solo, anche dalla politica, ma non ne fece mai occasione di polemica o di un autoreferenziale annuncio di sé come eroe dell’Italia. Amava lavorare instancabilmente perché si realizzasse il bene comune, ben sapendo che la giustizia è affidata, in ultima istanza, alla coscienza delle persone. Fanno riflettere le parole che Ambrosoli scrisse nella tesi di laurea, discussa nel 1958 a Milano, sul Consiglio superiore della magistratura a commento di un passo dell’Apologia di Socrate:

«Ogni stato libero, cioè rispettoso della libertà dei singoli, ha sempre avuta nella storia la stessa preoccupazione: che il giudice fosse libero di giudicare secondo la legge e la sua coscienza. […] Dobbiamo dire che non tanto sulle garanzie legislative è basata l’indipendenza del giudice, quanto sulla sua ferma coscienza. […] A quei giudici che, dispersi in sedi malagevoli e difficili, per la delicatezza delle loro funzioni, più si trovano a dover agire tra contrastanti interessi, particolarmente pensiamo: il Consiglio superiore della magistratura è un assai utile mezzo di difesa. Ma nessuna legge li garantirà mai appieno: fortuna è che nel giudice che, solo con la sua coscienza, decide la questione a lui affidata, possiamo e dobbiamo per le tante e continue prove, avere la massima fiducia. E questa fiducia, noi, con il massimo rispetto e la massima riconoscenza, con certezza esprimiamo».

L’Italia ha quanto mai bisogno di uomini come Ambrosoli che, nell’ombra, lavorano con onestà e preparazione.

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