Gerusalemme, Gerusalemme…

Mosca, gennaio 1879. Se tutti devono soffrire per conquistare con la sofferenza l’eterna armonia, che c’entrano i bambini? Rifiuto assolutamente la suprema armonia; essa non vale una lacrima, anche una sola di quella bambina martoriata. (…) Come è possibile aver creato un mondo in cui si faccia violenza ai bambini?. Con queste domande estreme Ivan Karamazov assedia l’amato fratello, il giovane novizio Alioska. A partire dal gennaio di quell’anno sulle pagine de Il messaggero russo compaiono le prime puntate del romanzo I fratelli Karamazov, di Dostoevskij. Che riportano queste agghiaccianti frasi. La sofferenza dei bambini, vittime innocenti dell’ambiente sociale e delle circostanze create da adulti, è il problema che la filosofia lega strettamente all’esistenza e ai poteri di Dio. Ivan Karamazov con estrema lucidità, afferma che non può accettare un mondo in cui i bambini soffrono: Non è che non accetti Dio, ma gli restituisco nel modo più rispettoso il mio biglietto d’ingresso. Gerusalemme, novembre 2005. La notizia sbuca tra le pagine di tutti i quotidiani. Correndo verso l’ospedale in ambulanza abbiamo visto molti bambini che giocavano. Nostro figlio era ancora sospeso fra la morte e la vita. Ho pensato allora che se fosse accaduto il peggio avremmo dato la vita ad altri bambini, affinché almeno loro possano continuare a giocare. Chi dice queste parole, pesanti come macigni, cariche di lancinante dolore e di coraggiosa speranza, è il padre di Ahmed al-Khatib. Il ragazzo palestinese di 12 anni ucciso per errore dall’esercito israeliano mentre, giocando imprudentemente con un fucile di plastica, stava attraversando una via presidiata da carri armati intervenuti per sedare una sommossa nel campo profughi di Jenin. Se Ivan Karamazov, con lucidità intellettuale, restituisce a Dio il biglietto d’ingresso, il padre di Ahmed decide di donare gli organi di suo figlio, morto, per salvare la vita di altri bambini che soffrono, israeliani o palestinesi che siano. Se gli organi serviranno – dice – ad avvicinare ebrei ed arabi, se metteranno fine alla crudele occupazione militare, allora avremo realizzato la missione di nostro figlio morto senza una ragione. Nella famiglia di Ahmed uno dei parenti è un attivista del movimento Shvil ha- Zahav che cerca di incoraggiare la comprensione reciproca fra israeliani e palestinesi. Di fatto quel gesto di pace in risposta ad un gesto di violenza è servito a salvare la vita a tre ragazze israeliane, due ebree ed una drusa. Che probabilmente potranno riprendere a giocare… Gerusalemme, 1994. La notizia s’infiltra come brezza fra le strette viuzze della città araba nelle quali si stanno allestendo le variopinte e odo- rose bancarelle dei suq. Hind Husseini è morta. Impossibile non piegare il capo, non accusare il colpo. Hind è stata una donna discreta, solerte, eccezionale. Senza far rumore, ha portato avanti strenuamente gli ideali in cui credeva. Per questo, nel momento dell’addio, tutti le sono attorno. Apparteneva a una delle più prestigiose famiglie storiche palestinesi di Gerusalemme. Il cugino di Hind, Faysal Husseini, fu capo della delegazione palestinese che lavorò tenacemente con quella israeliana, per preparare gli accordi che avrebbero portato alla celebre stretta di mano fra Rabin e Arafat nel giardino delle rose della Casa Bianca. Hind Husseini nel 1948 raccolse alcuni orfani del villaggio arabo di Deir Yassin, scampati al terribile massacro compiuto dalle milizie israeliane dell’Irgun. Per aiutare loro e tanti altri dopo di loro fondò l’orfanotrofio Dar Al-Tifl Al- Arabi in Gerusalemme Est. Lì accolse bambini che gli esiti cruenti della nascita dello stato d’Israele avevano lasciato senza genitori né mezzi di sussistenza. All’orfanotrofio affiancò successivamente un collegio femminile, preparando nuove generazioni di donne, istruite e consapevoli, per dare una speranza alla futura nazione palestinese. Lei si distanziò dalla politica più diretta, spesso immischiata in falsità e in corruzioni. Con lo sguardo lungimirante, accorto e realista, operò comunque una scelta politica d’inestimabile valore: fu membro attivo di varie organizzazioni di donne palestinesi e soprattutto mise in campo tutta la sua fermezza e la sua passione di educatrice, riuscendo ad allontanare tante ragazze dalla via dell’estremismo e dalla tentazione della violen- za, dando loro una formazione. Lo stato palestinese che nascerà – diceva – avrà bisogno di ragazze sveglie e intelligenti, non di martiri. La personalità carismatica di Hind Husseini e il suo collegio femminile fanno da sfondo al recente romanzo Rizzoli La strada dei fiori di Miral dell’esordiente Rula Jebreal, palestinese, da noi conosciuta come conduttrice del telegiornale di La7. È un racconto intenso, fatto da diverse storie fittizie, ma verosimili, che s’intrecciano. Tutte al femminile. Che raccontano l’anima lacerata, frastornata dall’odio, divisa tra urgenza di vendetta e sogni di pace. Vicende di persone che al di là delle appartenenze etniche e religiose si riconoscono sopratutto donne: legate da quella femminilità che costituisce un legame insondabile a ogni latitudine, coi capelli che scherzano al vento, o pudicamente raccolti nello hijab, il velo islamico. E sullo sfondo, ancora lei, Gerusalemme. La città di Davide per gli ebrei, la santa Al Quds per gli arabi, la città santa dei cristiani. Con le sue pietre bianche, che sembrano ogni volta miracolosamente lavarsi del sangue che le ha ripetutamente cosparse nei secoli. Lì la moschea di Al Aqsa, la Cupola della Roccia, il Muro del Pianto, il Monte degli Ulivi, il Santo Sepolcro. Lì la morte del Cristo, il mistico volo ai cieli di Mohamed sull’alata Buraq, l’Arca dell’Alleanza racchiusa nel Sancta Sanctorum dello splendore del Tempio di Salomone. Tutto rinchiuso nelle stesse mura: luoghi così vicini, eppure spesso così lontani. Guardandola nello splendore della sera sembra impossibile non riferire le parole del Talmud babilonese: Dieci misure di bellezza furono donate al mondo; nove furono date a Gerusalemme ed una al resto del mondo. Ma anche le accorate parole di Gesù: Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!. Con gli occhi occidentali è difficile capire Gerusalemme e comprendere la tragedia e la grandiosa prospettiva a cui è chiamato il piccolo lembo di mondo che la circonda, soprannominato Terra Santa. Dove la storia sembra accanirsi a dimostrare che un gruppo riesce a prosperare solo sconfiggendo temporaneamente gli altri. È difficile comprendere la sorda rabbia di chi è cresciuto in un campo profughi palestinese, senza un futuro ipotizzabile; della madre ebrea i cui figli sono stati uccisi in un attentato kamikaze; il risentimento dell’araboisraeliano che vive un’esistenza di seconda classe nel moderno stato ebraico; la snervante perplessità dell’ebreo minacciato da parti del mondo arabo che lo vorrebbero cancellato dall’atlante. È certo auspicabile che al più presto un libero e riconosciuto stato di Palestina s’instauri di fianco ad un libero e riconosciuto stato d’Israele. Forse la strada è ancora faticosa e certo non sgombra di ostacoli. Ma è significativo che proprio da questa terra così provata scaturiscono alcune inaspettate risposte alle tragiche domande di Ivan Karamazov. Il gesto del padre di Ahmed, l’impegno di Hind, gridano al mondo – col silenzio tipico del bene – che i bambini devono poter giocare. E ogni gesto che aiuta a far sì che il loro gioco sia migliore del nostro, è un gesto di speranza.

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