Gatti e scimmie

Articolo

Arnaldo Colasanti ha scritto un libro bello, coinvolgente, importante per l’Italia di oggi; e dico subito: imperfetto, a volte eccessivo, un po’ accumulatorio per quella sua ostinazione narrativa a voler intersecare tre piani – la memoria dell’infanzia, la vitale critica letteraria (Colasanti oltre che insegnante è critico di talento e condirettore di Nuovi Argomenti) e la cronaca in presa diretta dell’insegnamento a studenti “gatti e scimmie”, impotente ad immergerli nell'”acqua indimenticabile della bellezza”. Ed eccessivo anche per il suo continuo, sincerissimo struggimento sentimentale e intellettuale. che prende alla gola il lettore. Ma proprio da qui si risale al valore grande del libro nonostante i difetti. L’autore mostra nel proprio fondo, con premente urgenza interiore, l’immensa ferita infantile della morte prematura e improvvisa della madre, ferita in lui immedicata e giustamente immedicabile, e da questa dolorosamente spalancata finestra vede tutto il suo mondo fattosi adulto: l’ormai perplesso amore, sempre viscerale e totale, per la letteratura, la trasognata collana di sconfitte umane via via inanellatasi fino alla croce delizia, anzi delizia-croce dell’insegnamento a studenti amati e incomunicabili; la realtà stessa incomunicabile, sia per la sua irrisoria e deludente e caotica frammentarietà (tale appare vista dall’altezza di quel lutto primario che ogni cosa ha posto nella prospettiva dell’irrecuperabile), sia per l’acuta coscienza della crisi umana-culturale che l’Italia, osservata proprio dall’oculare della scuola, sta paurosamente vivendo. E non ne trae nessun conforto ideologico e nessuno sconforto narcisistico, ma cerca di viverne il dolore allo stato puro: ecco la grandezza di questo libro. In confronto ha poca importanza, vera o meno, l’esile trama dell’impossibile lezione sui poeti del Novecento agli studenti, che attraversa il libro come un irreale romanzesco (che questo non sia un romanzo è l’ultima cosa che importa). La vera trama è la storia sanguinante, in atto, di un’autenticità umana torturata dal suo amore per la parola come ipostasi della vita stessa, negata, sfuggente irrimediabilmente inseguita con un tuffo al cuore e un sorriso allarmato. come si insegue un autobus che ci sfuggirà: “La certezza che ciò che amiamo sia quello che si può solo perdere e ricordare è una certezza feroce. Qualsiasi istante della vita, oggi come domani, non è che il punto dell’addio”. Ma – e la letteratura, l’amore primo e irrinunciabile? Proprio su questa “frequenza” interiore Colasanti trova, continua a trovare la sua mai garantita e mai però sopprimibile salvezza: nella profondità della parola poetica, quella che va oltre la vita e la morte perché le fa specchiare entrambe nella propria oltrepassante verità laica-religiosa, si svela “l’incompiutezza gelatinosa dell’esistenza”; nella poesia che “è realmente nulla” e “per questo può essere pensata solo come grazia” che “fa esistere”. Anche le pagine (125-130) – bellissime – che descrivono la rottura del “legame linguistico” tra la letteratura e la realtà, nella loro disperazione non sono senza speranza; una speranza – certo, all’altezza vertiginosa della disperazione – è quella che dichiara attendibile il paradiso “solo se sulla terra sarà reso possibile l’incontro del calvario, un lunghissimo sguardo dal crepaccio – gli occhi di Dio serrati dentro quelli dell’uomo”. È così Colasanti: sorprendente, spiazzante per gli ideologi sia di qua che di là della povera, perdurante Italietta schierata: dispera e crede, ha allievi turpiloquenti e facenti, che non gli permetteranno mai una sublime lezione sul lirico Caproni, ma al contempo sta lì ad amare e celebrare la festa del suo stesso massacro, perché la poesia (che “è nulla”) “è l’unica umanità che possediamo”. Io lo ringrazio di aver scritto questo libro.

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