Con Francesco in Myanmar si costruisce

Francesco non si smentisce e nella sua visita nel Paese asiatico rilancia la sua politica fatta di preghiera, incontri, fuori programma e edificare di «ponti di dialogo» dove prima non esistevano
EPA/PHYO HEIN KYAW / POOL

Conosco una definizione di miracolo che mi è sempre piaciuta: «Il miracolo è far nascere cose che prima non esistevano». Papa Francesco è uno che ci ha abituato. È volato in Myanmar, in una lontana periferia del pianeta per sanare una situazione che da decenni sta mietendo morti e distruzione, perché, come ama dire: «Bisogna accarezzare il conflitto», cioè affrontare una situazione scottante non prendendola di punta magari violentemente, ma con calma, andando alla radice della questione, incontrando le persone coinvolte, parlando del problema, cercando insieme delle soluzioni. In un clima che possa mettere le parti in causa una di fronte all’altra, senza violenza, ma in dialogo costruttivo. Guarda caso, questo è un valore, un modo di fare prettamente asiatico.

«Bisogna incontrare gli uomini che sanno e possono costruire i ponti del dialogo»: è una definizione dal papa stesso coniata poche ore fa di fronte alla classe politica del Myanmar e del corpo diplomatico ed alle telecamere del mondo, nella nuovissima capitale del Myanmar, Naypyidaw.

Un discorso che ha saputo affrontare il problema di un’etnia perseguitata, quella dei rohingya, ma in un’atmosfera di dialogo. Ha parlato di giustizia, di libertà per tutti, di uguaglianza e di diritti dell’uomo, ma anche di altro: «Sono venuto per pregare». Ed ha continuato con toni sereni, paterni, teneri direi, nei confronti del piccolo popolo cristiano del Myanmar, rassicurando tutti ad andare avanti, a non fermarsi. In realtà di ragioni per fermarsi ce ne sarebbero non poche nella storia di questo Paese. Ma il papa, come ha ben detto, non è qui solo per i cattolici, «ma per tutto il popolo del Myanmar». Papa Francesco ha anche parlato della «cultura dell’incontro e della solidarietà, dei diritti di liberta per ogni gruppo religioso o etnico». E questi riferimenti esposti di fronte a chi guida il Paese, incidono e sono una testimonianza della cultura e della vita che papa Francesco propone.

Vorrei sottolineare due episodi: l’incontro del Santo Padre con i 17 leader religiosi rappresentativi del Myanmar, all’arcivescovado, per 40 minuti. Riuscire a tener insieme una nazione con 135 gruppi etnici diversi (solo per citare quelli ufficialmente riconosciuti) è un’impresa difficilissima, un’eredità lasciata dal vecchio governo coloniale britannico. Si parla di popoli con lingue, tradizioni, costumi completamente diversi, ed anche con religioni varie.

Ed è qui che il Myanmar “gioca” la sua importante partita dell’unità nella diversità. «Quanto è bello che i fratelli siano uniti: uniti che non vuol dire uguali e uniformi», ha commentato papa Francesco nel vedere i leader religiosi, continuando con  loro con un eloquente: «Non lasciarsi uniformare da una colonizzazione della cultura che vuole tutto appiattire». Il Myanmar ha bisogno di questo: di un grande uomo e leader religioso che sappia mettere in luce uno dei valori presenti della cultura di questo Paese: quello della convivenza pacifica delle religioni, e sentirselo ripetere e confermare.

Il secondo evento, avvenuto con il comandante in capo dei servizi di Difesa, Aung Hlaing, al momento dell’arrivo, nelle primissime ore del papa in arcivescovado. Un incontro “fuori programma” che qualcuno ha voluto definire già come il più importante ed il più delicato di questi 4 giorni in Myanmar, perchè papa Francesco ha avuto davanti a sé chi ha il comando di tutte le operazioni di sicurezza, comprese quelle nello Stato del Rakhine, da dove sono fuggite circa 620 mila rohingya da agosto ad oggi. Un incontro a dir poco delicato, che voleva forse essere segreto, ma di cui non sono state divulgate foto o altre notizie. E questo già parla e spiega tutto. Un evento preparato dal saggio card. Charles Bo, che potrebbe dare una svolta all’intera questione dei profughi del Myanmar, non solo dei rohingya. Non dobbiamo dimenticare che, dopo la lunga e sanguinosa guerra civile durate 70 anni, il potere è “apparentemente” passato a un governo civile, ma chi ha la responsabilità delle operazioni militari di sicurezza interna non è il governo ma i militari.

La gente, in particolare i cristiani, sono in festa e molti hanno pianto dalla gioia e dall’emozione, al solo vedere passare la vecchia macchina col Santo Padre a bordo. Un’impressione tra le mille raccolte a caldo: «Un pastore finalmente arrivato in mezzo al suo gregge: siamo onoratissimi che il papa abbia scelto un Paese povero come il nostro e che sia venuto tra noi, per pregare con noi». Francesco ha concluso il suo discorso ufficiale davanti alle massime autorità dello Stato con queste parole: «Il Myanmar è un Paese ricco di bellezze naturali: ma la ricchezza più bella è la sua gente». Un programma.

 

 

 

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