Fra stelle, numeri e poesia

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Se ne parla oggi spesso, dell’Iran, dei suoi leader, delle loro discutibili politiche. Ma, trovati su una spiaggia mediterranea, una sera d’estate, a fissare il sole che scivola pian pian dietro la linea blu del cielomare, lasciandoti trasportare dalle parole degli antichi poeti persiani, e scopri un altro lato di quella terra favolosa: Gli atomi danzano; le anime per la gioia, senza piedi né testa, danzano/ Se vuoi ti confiderò dove la danza trasporta chi, con il firmamento intero, danza, canta Rumi, contemporaneo di san Francesco, e definito il più grande poeta mistico dell’umanità. E Nezami gli fa eco: Troppo misero è il cuore di chi non ha un amato./ È difficile essere senza un amico o un amante./ In questi pochi istanti che non troverai mai più/ se hai un cuore, non stare senza l’amato. La Persia – dei favolosi tappeti, delle incredibili miniature, delle moschee mozzafiato di maioliche azzurre, color d’eterno – ha un amore viscerale per i suoi antichi poeti. Li ama come i suoi santi sciiti. La passione per la poesia porta ancor oggi tanti iraniani a venerare a Shiraz (nei pressi dell’immortale Persepoli) i mausolei dei poeti Hafez e Sa’di; li porta vicino a Mashad, ad onorare la tomba del poeta epico Firdusi. Erano poeti innamorati della saggezza celeste: hanno celebrato la gloria della nazione e dei suoi eroi, si sono immersi nella favola, si sono inebriati di storie d’amore, si sono inoltrati nel senza-spazio del poema mistico, hanno ammiccato agli spettri e alla magia. Tra essi, un posto tutto particolare lo tiene Omar Khayyam. Nella grandiosità dell’Islam medievale, c’è posto anche per questo impenetrabile e conturbante tipo di cui, peraltro, si conosce ben poco. In Oriente Khayyam è ricordato soprattutto come un grande matematico e astronomo, geniale giocoliere tra stelle e numeri. In Occidente è il poeta persiano più popolare, specialmente per la fortunata, sebbene non troppo fedele, traduzione delle sue Roba’iyyat (= Quartine) da parte dell’ottocentesco Fitzgerald. Omar Khayyam nacque nella prima metà dell’XI secolo, probabilmente a Nishapur nel Khorasan, Persia orientale. Il suo nome significa fabbricante di tende e sembrerebbe derivare dalla professione del padre. Khayyam fu uno di quei rarissimi geni poliedrici che poteva trattare valentemente di varie materie: passando con lievità e profondità dalla matematica alla teologia, dall’astronomia alla poesia. Fu incaricato di riformare in modo scientifico il calendario. Cominciò a lavorare nel nuovo osservatorio di Ray nel 1074. Il suo calendario, chiamato Jalali, risultò essere più preciso di quello Gregoriano. Egli infatti misurò la lunghezza dell’anno in 365,24219858156 giorni. Numero che solo nel diciannovesimo secolo fu contraddetto alla sesta cifra decimale: 365,242196 giorni! Come matematico lasciò illuminanti lavori di algebra, sulla risoluzione delle equazioni di terzo grado e sull’intersezioni delle coniche. Come per molti geni, la leggenda s’impadronì di lui. Si narra così – quasi di certo, erroneamente – che fu immischiato nelle vicende di Hasan-e Sabbah, il famigerato Vegliardo della Montagna capo della triste setta degli Assassini, i consumatori di hashih (da hashih infatti deriva il nome assassino). Di loro parla anche Marco Polo. Si dice inoltre che Khayyam avesse un grande amore per la filosofia, in particolare per Avicenna; e che nutriva una antipatia non dissimulata per il teologo musulmano al Ghazzali, suo contemporaneo, al quale probabilmente rivolse i versi irriverenti: Bere il vino e corteggiare fanciulle / è meglio che fare esercizi d’ipocrita ascesi. Sì, Khayyam nelle sue celebri quartine celebra le delizie del vino (bevanda proibita dall’Islam) e i piaceri dell’amore sensuale, come rimedio all’inesorabile passare del tempo che dissolve la vita nello sfuggente mistero della morte. Leggiamo così: Vieni, accarezza le chiome di gentile fanciulla/ prima che il fato ti infranga le membra./ Godi una coppa di vino finché il tuo nome è sul Libro di Vita./ Il cuore domato dal vino non è preda di affanni. E ancora: Con bella fanciulla in riva al ruscello, e vino, e rose,/ finché m’è concesso, godrò in pura letizia./ Finché fui, sono, e sarò in questo mondo/ ho bevuto, bevo e berrò sempre del vino!. E ancora: Dal libro dell’amore io traevo un augurio:/ d’improvviso un sapiente dal cuore acceso disse:/ Felice chi nella casa ha un’amica bella come la luna,/ e una notte lunga come un anno. Perché Khayyam aveva la libertà d’esprimersi in tal modo nell’austero ambiente islamico? Intanto l’Islam medievale viveva una favolosa età dell’oro nella quale prosperava una rigogliosa ricerca scientifica e artistica; e aveva costituito una società multietnica e multireligiosa assai tollerante. Questa società è tramontata con la distruzione mongola di Baghdad nel 1258 – che ha piombato l’Islam in una lunga e profonda notte. Ma allora l’Islam s’ergeva attorno alla Baghdad della Casa della Sapienza: in quella città i cristiani svolgevano liberamente qualsiasi attività e potevano praticare la loro religione; anche gli ebrei avevano costituito una forte comunità, ed alcuni dei suoi membri esercitavano grande influenza alla corte del Califfo. In quell’ambiente culturalmente vivace e aperto a più voci – dove sono nate anche Le mille e una notte! – la riconosciuta genialità di Khayyam e il suo cocciuto anticonformismo gli permisero di poter liberamente scrivere di vino e di amore. Questo però non è da interpretare come una concessione al suo stile di vita. Anche perché egli stesso ama confondere le idee: Dovendo bere vino, fallo con i sapienti/ o con una bella dal volto di luna;/ dovendo bere vino fallo con dovizia,/ bevine poco, ogni tanto ed in segreto. Chi era dunque Khayyam? Un gaudente? Un pessimista che annegava nel vino la sua disillusione cosmica? Un agnostico? Un critico dell’islam oppure un suo sottilissimo mistico? La questione è ancora irrisolta. Khayyam, se da una parte sembra preferire il godimento dei piaceri terreni alle gioie celesti, dall’altra appare perfettamente a suo agio tra i simboli della poesia sufica, la mistica islamica. Basti ricordare che insieme a Rumi (il celebre fondatore dell’Ordine dei Dervisci danzanti) è considerato anche un maestro sufi. Nella poesia sufi infatti i richiami alle gioie del vino e dell’amore terrestre sono spesso allegorie delle inenarrabili realtà divine. Anche l’ayatollah Khomeini, nelle sue poesie, faceva uso di questi simboli: e non poteva certo essere accusato d’essere un profanatore dell’Islam! Una certa spiegazione, comunque, la dà Khayyam stesso in una quartina: Io bevo, sì, vino, ma non sono un libertino./ E le mani allungo, sì, ma solo per versare la coppa./ Sai tu perché voglio essere adoratore del Vino?/ Per non divenire (come te) adoratore di me stesso. Il mistero dunque rimane. Forse rimarrà per sempre avvolto nella tomba di Nishapur che custodisce le sue spoglie e della quale egli profetizzò: La mia tomba sarà in un luogo tale che ad ogni primavera il vento del nord farà piovere fiori sulla terra del mio corpo. Profezia che un suo amico – il poeta Nezami – costatò essere vera quando la visitò anni dopo, e vide che i rami dei peri e degli albicocchi, spuntando dietro il muro del cimitero, l’avevano ricoperta d’un variopinto tappeto di fiori. Allora gli vennero le lacrime agli occhi pensando a quel Grande, che aveva nascosto il viso sotto il velo della terra. La tomba fiorita racchiuderà nei secoli il mistero di Khayyam: della convivenza in lui di due anime, una materialista l’altra mistica. Ma proprio in questo mistero – che sempre ci tocca e ci accomuna – si cela il fascino scintillante, quasi millenario, delle sue poesie. Che continuano a sedurre per la loro dolcezza, per la loro gioia del vivere e la loro tristezza del vivere. Per l’inappagabile sete d’infinito.

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