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Aumenta il numero delle persone richiedenti asilo, tra cui sono numerosi anche i minori. Nelle città la sfida dell'integrazione.
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Morto sotto un camion a 13 anni per sfuggire ai controlli di frontiera al porto di Venezia. È la tragica fine di un ragazzino afghano che tentava di raggiungere l’Italia alla ricerca di un futuro migliore, o forse, semplicemente di un futuro. Una sorte la sua, purtroppo, non unica. Preoccupa infatti la crescita esponenziale dei minori che tentano la via della sopravvivenza nei modi più disparati. Orfani che scappano dalla violenza e dalla miseria, bambini che le stesse famiglie, a volte, imbarcano nell’ultimo, disperato tentativo di salvarli. Tanti vengono respinti alle frontiere. Gli altri, quelli che riescono a coronare il loro sogno, spesso rimangono nelle maglie della clandestinità e vanno a finire nei circuiti della microcriminalità. I più fortunati, invece, entrano nel programma di protezione dei minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo (Msnara).

Per loro infatti, nel marzo 2007 è stata emanata una apposita direttiva del ministro dell’Interno, di concerto con il ministro di Giustizia. Un passo fondamentale per una presa in carico univoca e condivisa. Anche per gli adulti la tendenza è all’aumento, in generale come immigrati ed in particolare come richiedenti asilo. Tante sono le forze in campo impegnate a dare una risposta adeguata, dal ministero dell’Interno all’Alto commissariato delle Nazioni unite, dalle associazioni di volontariato ai più diversi enti. Dal 2002 è stato istituito lo Sprar, ovvero il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, costituito dalla rete degli enti locali impegnati nella realizzazione di progetti territoriali di accoglienza e integrazione. A coordinare lo Sprar provvede il Servizio centrale, una struttura operativa attivata dal ministero dell’Interno e affidata all’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani. Come si capisce subito, è un intreccio a diversi livelli, dal nazionale al locale. E forse qui sta una delle sfide: la risposta alle richieste di asilo, come all’immigrazione in generale, passa sì dalle politiche nazionali, ma poi si concretizza a livello locale, nelle città, dove di fatto l’accoglienza e l’integrazione prendono forma.

Secondo un rapporto dello Sprar presentato nei giorni scorsi, 104 sono stati nel 2007 i progetti di accoglienza portati avanti dal Sistema di protezione su tutto il territorio nazionale. Nel 2008 sono diventati 114. Grandi città e piccoli centri dal nord al sud, coinvolti in un progetto che prevede per lo più l’accompagnamento delle persone a cui è riconosciuto lo status di rifugiato fino al loro inserimento nella società: il modello d’accoglienza predilige strutture di dimensioni medio-piccole, ideate e attuate a livello locale per favorire un positivo coinvolgimento della popolazione del posto. Come raccontano i promotori del progetto di accoglienza di Lodi, per quanto offrire asilo e protezione sia la priorità, tuttavia accogliere, rassicurare, orientare le persone che fuggono dalle persecuzioni non basta, è la finalità di una metà soltanto del progetto. L’altra metà si propone, ambiziosamente, di costruire un nuovo patto sociale, una nuova coesistenza civile nel territorio. Da qui la promozione di eventi, campagne, pubblicazioni per e con i rifugiati, per operare in nome della sicurezza reale (altra rispetto alla sicurezza percepita), che risiede, appunto, nella convivenza.

Dal nord al sud cambiano le condizioni, ma uguali sono le motivazioni. Abbiamo conosciuto persone uniche e straordinarie – racconta Marika Visconti, operatrice di Napoli -, ci siamo mischiati alle loro storie e per un po’ ne abbiamo fatto parte, condividendo con loro la drammaticità del distacco dal passato e l’incertezza per il futuro. E a dimostrazione che pur in condizioni particolari si possono raggiungere buoni risultati, Marco Ehlardo, coordinatore del progetto aggiunge: Ogni risultato raggiunto in questi anni è stato la dimostrazione che Napoli ha forze e risorse morali ben maggiori dei mezzi economici a disposizione. Le risorse morali e quelle economiche, appunto. Su tutti questi progetti pende la spada di Damocle della grave crisi economica che attraversa il nostro Paese, con una finanziaria che dovrebbe ridurre i fondi destinati all’immigrazione del 45 per cento entro il 2011. A fronte della crescita della domanda, dunque, diminuisce – e di molto – l’offerta. Né bastano altri fondi, anche europei, per fronteggiare in maniera adeguata la situazione. Se dunque non si riesce ad ottimizzare le risorse umane ed economiche disponibili, difficile proseguire.

Secondo Paolo Artini dell’Acnur è prioritario passare dalla gestione dell’emergenza alla programmazione. Così com’è urgente avere una regia unica. Succede infatti che tra le diverse fasi che vanno dalla prima accoglienza, alla richiesta di asilo, all’audizione presso le commissioni territoriali, all’inserimento nei progetti Sprar vi sia un tale scollamento, da rendere questo percorso già complicato, una sorta di viaggio su un treno dal quale bisogna scendere ad ogni fermata in attesa di poter risalire per la tappa successiva, con vuoti di tutela fra un passaggio e l’altro, come evidenziava Manuela De Marco di Caritas Italia. E di certo perdere tempo non va a vantaggio di nessuno.

INTEGRAZIONE MAI A SENSO UNICO

Intervista con Salvatore Brullo, responsabile dei progetti territoriali Sprar del comune di Comiso (RG).

Un sistema complesso quello dello Sprar, con diversi settori di intervento. Come interagiscono fra loro?

Finora i tre settori di intervento stabiliti per decreto legge – accoglienza, integrazione e tutela – erano facoltativi; quindi molte strutture si dedicavano in maniera particolare all’accoglienza tralasciando la fase dell’integrazione. Con il bando di quest’anno, i tre tipi di interventi sono diventati obbligatori e quindi ogni struttura dovrà garantirli tutti e tre. D’altra parte i centri Sprar sono stati pensati come centri di seconda accoglienza, che devono lavorare in maniera particolare per l’integrazione. Per la quale, a dire il vero, i sei mesi previsti non sono sufficienti… Intanto occorre dire che i sei mesi di permanenza decorrono dal riconoscimento dello status di rifugiato che arriva anche dopo 5-6 mesi dalla richiesta di asilo. In ogni caso, sei mesi servono ai rifugiati solo per riacquistare fiducia, ma non per iniziare un vero e proprio processo di integrazione che è una cosa molto più complessa. Per questo il Servizio centrale è molto comprensivo e spesso il periodo di permanenza viene prolungato.

Come funziona l’intreccio tra livello nazionale e locale?

A livello nazionale il Servizio centrale fa da cabina di regia mentre l’Anci assegna i progetti ai comuni, fa un lavoro di coordinamento, di monitoraggio della qualità dei servizi, di formazione degli operatori e controllo della rendicontazione. A livello locale i comuni, che sono di fatto gli enti titolari dei progetti, affidano la gestione a enti del terzo settore che svolgono tutto il lavoro, dall’assistenza ai servizi per l’integrazione e la tutela…. C’è chi avanza l’ipotesi di rendere obbligatorio, da parte dei comuni, di inserirsi in questi progetti… La volontarietà è un ottimo aspetto, perché se il comune si fa carico di un progetto si prende anche l’impegno morale di portarlo avanti. L’obbligatorietà mi sembra una forzatura. C’è anche da dire che le richieste dei comuni italiani non vengono tutte soddisfatte essenzialmente per una mancanza di fondi.

C’è anche chi propone una legge sull’integrazione? Basterà?

Intanto dovremmo capire cosa vuol dire integrazione. Intendiamo forse l’inserimento sociale regolare, la possibilità di accedere al lavoro, alla formazione scolastica? A me questo sa molto più di inserimento sociale che non di integrazione. Quello che dobbiamo fare è confrontarci con il cambiamento della nostra società che da monoculturale sta diventando multiculturale. Quindi avviare azioni di sensibilizzazione del territorio, di confronto con la cittadinanza per rendere i beneficiari protagonisti attivi del loro inserimento sociale. L’integrazione non si fa mai a senso unico, ma a due, con un dialogo che coinvolga le parti interessate.

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