Famiglie fallite ?

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Nell’atto di aprire un discorso sulla realtà delle famiglie separate, converrà subito dichiarare un’impressione forte che si ricava dal contesto sociale di oggi. Per ragioni diverse, spesso si preferisce non parlarne, oscillando tra la convinzione che in fondo si tratta di un problema privato e l’imbarazzo di considerare quella famiglia che si separa come un semplice fallimento. In tutti e due i casi, le persone coinvolte si ritrovano molte volte a vivere nella solitudine, e nella sofferenza, la loro esperienza privata. Incomprensibili talvolta anche ai familiari e alle persone più vicine, eppure additati con un’etichetta che ne dovrebbe, chissà perché, rivelare e risolvere la vera identità: sono dei separati, dei divorziati. Etichette che, al di là delle intenzioni espresse nei documenti della chiesa, anche in tante comunità cristiane automaticamente li mettono ai margini. Ma perché partire da qui nel nostro discorso? Perché se non capiamo che oggi proprio queste esperienze così dolorose, e rimosse, ci parlano più di altre della nostra reale condizione di uomini e donne del XXI secolo, e ci possono svelare lati inaspettati delle relazioni umane, e di ciò che è il sacramento del matrimonio, ogni altra parola rischia di naufragare. E magari qualcuno a questo punto pensa sia solo un problema di accettare il destino, qualcun altro non riesce a superare un giudizio morale, per altri ancora è in gioco invece la libertà individuale contro ogni coercizione. Se provassimo ad ascoltare questi uomini e donne? In Italia esistono alcune iniziative in questo senso, sia a livello parrocchiale che a carattere associativo più ampio e coinvolte nel Forum delle associazioni familiari. L’intento prima di tutto è di accogliere ed ascoltare chi vive il dramma della separazione, siano essi separati, divorziati o risposati. Un approccio condiviso da quanti operano in questo campo, pur nella diversità di queste iniziative e dei percorsi di sostegno che ne seguono. Il primo passo richiesto è l’accoglienza e l’ascolto, senza la presunzione di avere una ricetta o una risposta risolutiva ai tanti problemi derivanti dalla separazione, a livello civile ed ecclesiale. Cresce tuttavia la richiesta, soprattutto da parte di chi già da alcuni anni sta facendo questo percorso, di superare la logica del semplice gruppo di autoaiuto, che rischia di lasciare le persone coinvolte un po’ ai margini della vita sociale e di quella ecclesiale, in attesa di poter essere riammesse nell’ambito delle situazioni normali. In molti c’è infatti la consapevolezza della irreversibilità di alcune scelte, fatte o subite, per le quali tuttavia non si cercano tanto giustificazioni, quanto la possibilità di viverle con gli altri come un’autentica esperienza di fede. Spinte da questo desiderio, oltre un centinaio di persone, provenienti da diverse parti d’Italia e d’Europa, si sono ritrovate agli inizi dell’anno presso il Centro Mariapoli di Castelgandolfo. Ne è scaturita una singolare esperienza di famiglia, che ha riunito insieme separati che hanno fatto la scelta di non risposarsi e coppie cosiddette regolari. Proprio questo modo di ritrovarsi insieme ha permesso che i tanti dolori, le tante ferite superate o ancora drammaticamente aperte svelassero un volto invece che un vuoto, dando speranza e luce. Lo sforzo è stato quello di far emergere la realtà della separazione nel contesto della vita familiare, come un proseguimento della stessa, soprattutto nei confronti dei figli. Il fatto di ascoltare l’esperienza della separazione vissuta da mogli e da mariti ha permesso uno sguardo nuovo sui sentimenti vissuti dall’altro coniuge, fino a quel momento visto invece solo come la causa delle sofferenze patite. Non sono mancate anche esperienze di membri dei Focolari che si sono sentiti chiamati a mettersi al servizio dei separati, anche in realtà esterne al movimento. In molti si è fatta più viva la consapevolezza della forza del sacramento del matrimonio, scoprendo come possa dare la grazia di vivere bene non solo la convivenza coniugale, ma anche la forzata solitudine della separazione. Perché questo è uno degli elementi emersi con forza dall’incontro, vedere come la fine del matrimonio può essere in realtà la chiamata ad una nuova esperienza umana e di fede, in cui trovano posto anche le fragilità e le debolezze di ciascuno. Ma come anche le persone separate, attraverso questa esperienza, possano far comprendere meglio alle altre coppie i profondi valori umani e spirituali che devono animare l’essere coppia, l’essere famiglia. Ci diceva Ernesto Emanuele, presidente dell’associazione Famiglie separate cristiane, nata nel 1998 a Milano, oltre cinquanta gruppi di preghiera e di aiuto in Italia, come al fondo il problema sia prima di tutto non l’altro coniuge, ma il ritrovare Dio. Perché quando si spezza l’unità fra marito e moglie, l’unica cosa che si prova sono la rabbia, l’odio. Da un giorno all’altro ti trovi magari sbattuto fuori dalla tua casa, in un albergo, senza poter vedere i tuoi figli. Ecco perché all’inizio ciò che conta è trovare qualcuno che ti faccia sentire di nuovo amato, e che sia pronto magari ad ascoltarti per ore. Dello stesso avviso Maria Satariano, separata da quattro anni, anche lei coinvolta negli incontri della stessa assocazione, in un’altra città, Genova. La ferita non è ancora chiusa, ma con la consapevolezza di non aver forse compreso pienamente il sacramento del matrimonio, il significato dell’amore. Ho ricominciato quando ho sentito di dover chiedere perdono, e che dovevo aiutare mio figlio ad avere un rapporto con il padre. Certo, rimane un dolore forte, un bisogno di famiglia. Ma già il non essere soli in questo cammino permette di tornare ad amare. Siamo qui – diceva ancora Ernesto Emanuele -, perché il vertice dell’amore coniugale è amare quando non si è più amati, di quell’amore di cui è stato capace Gesù abbandonato sulla croce. È una strada per nulla indolore, per tornare a dare un nome alle cose e alle circostanze della vita, senza rimuoverle semplicemente dalla nostra coscienza personale e collettiva. Perché lo spazio delle cose è il luogo in cui si gioca il senso e il destino della nostra vita, intesi come la mèta e gli obiettivi che noi ci prefiggiamo, ma che spesso non ci appartengono o non riusciamo a controllare. E allora le testimonianze di fedeltà, di amore disinteressato, di perdono, di fortezza, da parte di chi si è trovato nel non senso, nel dolore e nella solitudine, sono una luce che può illuminare il cammino di altri. C’è forse un’espressione – non conclusiva, perché dicevamo che questo vuole essere solo un inizio – che, più di ogni altra, può aiutarci a capire il senso di questa esperienza. Sono le parole poetiche di Karol Wojtyla nel suo dramma Fratello del nostro Dio, quando parla dell’esistenza in ogni uomo e donna di una zona inaccessibile alla storia. Una zona che si erge tra la persona e i tentativi di comprenderla, cosicché dall’esterno si rischia di non avere accesso alla sua verità più profonda, a ciò a cui essa è chiamata. L’unico modo, scrive, è capirli dal di dentro, per quanto loro stessi avranno accettato di svelarsi.

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