Eros Ramazzotti, la stanchezza del numero 1

Eros Ramazzotti

Sarà perché sono entrambi figli fortunati dell’Urbe, ma ho sempre pensato che l’Eros nazionale stia al pop italiano come Francesco Totti al nostro calcio. Potrebbe esserci insomma un filo sottile ad imparentarli, o un’affinità elettiva, se preferite: un mix di ruspanteria borgatara e qualunquismo, di simpatia e di moderato bullismo da parvenu. Di certo nessuno dei due ci tiene a passare per intellettuale: forti dei loro rispettivi talenti, della popolarità planetaria, e di conti principeschi, entrambi piacciono perché non hanno mai pensato d’essere altro che sé.

Lasciando il Pupone alle sue ferie pallonare, l’Eros s’appresta invece a vivere un’intensa stagione di concerti per promuovere il suo recente ritorno discografico, appena pubblicato col bel titolo di Ali e Radici (Sony-Bmg). Un lungo tour attraverso l’Europa che andrà avanti almeno fino alla prossima primavera.

Come molti colleghi, anch’io in passato sono stato tentato di ricondurre lo stile ramazzottiano al modello di Baglioni o a quello di Renato Zero. Col senno del poi credo sia stato un errore. Perché a differenza dei succitati, Ramazzotti non ha mai saputo o voluto evolversi: lui è sempre rimasto uguale a sé stesso (e se ciò sia pregio o difetto lascio al lettore decidere); così, a conti fatti, il suo percorso appare piuttosto accostabile a quello dei Pooh o di Celentano.

Non stupisca perciò se queste sue nuove canzoni avrebbero potuto tranquillamente far parte dei suoi primi album. Solo il sound s’è fatto via via più sofisticato tanto che oggi i suoi dischi – compreso questo, guarda caso rifinito in California – non hanno nulla da invidiare alle più lussuose produzioni anglo-statunitensi. Ma i suoni degli arrangiamenti sembrano spremer sangue dalle rape. Non infastidiscono tanto i banalismi sentimentali imbastiti dal fido paroliere Cogliati (del resto sono un cliché intramontabile del pop), ma piuttosto quando il nostro tiri volenterosamente in ballo tematiche impegnative come l’ambientalismo o la fratellanza universale senza un’adeguata preparazione e spessore poetico: perché da che mondo è mondo, le canzoni non sono comizi o omelie, e la grandezza di un testo non è data dal tema o dal cosa ma dal come lo si affronta. E qui, almeno a tratti, si sfiora il più stucchevole populismo celentanesco.

Ali e Radici è il quindicesimo album in venticinque anni di fin troppo onorata carriera. Non so come il quarantaseienne di Cinecittà stia realmente vivendo questa stagione così delicata nella vita di un artista, certo è che il rischio di comprimere la propria carriera in una routine patinata e sempre più asettica appare tutt’altro che archiviato.

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