Elena Aubry: un anno dopo

La battaglia di Graziella Viviano per salvare i motociclisti, dopo la perdita, un anno fa, della secondogenita.

Il 6 maggio di un anno fa è scolpito per sempre come una pietra miliare. Una domenica mattina che segna sull’asfalto una storia che non è finita. Graziella Viviano, architetto, una donna imponente, statuaria, i capelli lunghi, ricci e biondi, si recava sul lungomare di Ostia per un pranzo con amici in una bella domenica assolata. Di solito percorre la più ampia via Cristoforo Colombo, ma quella volta scelse la più angusta via Ostiense.

Nella direzione opposta, dalla via Ostiense verso Roma, poco prima, procedeva la seconda figlia, Elena Aubry, 25 anni, appassionata di moto, viaggi, gite e della vita in genere. Dopo una serata trascorsa con amici e aver dormito fuori casa, stava recandosi a lavoro, nel settore turistico.

Graziella si siede al ristorante e le dicono che suo fratello l’aveva cercata al telefono e la polizia era stata a casa sua, ma mai avrebbe potuto immaginare quello che era successo.

Nella corsia laterale della via Ostiense, con una manutenzione approssimativa, buche, aghi di pino, le radici degli alberi inducono Elena a una guida attenta e lenta, non superiore ai 50 km/h, tanto che viene superata da un maresciallo dei carabinieri con la sua moto.

Probabilmente per le sollecitazioni dell’asfalto sconnesso, gli ammortizzatori si bloccano. Elena perde il controllo della moto, cade e si schianta contro il guardrail.

«Elena ‒ racconta Graziella ‒ era una ragazza molto sveglia, generosa, una forza della natura. Conosceva l’inglese e lo spagnolo, aveva vissuto a Londra ed era ritornata in Italia perché gli mancava il sole e poteva visitare posti stupendi con la sua moto».

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Al funerale Graziella, distrutta da «un dolore che solo chi ha passato può comprendere», nella piazza antistante la chiesa, gremita di motociclisti, mentre volano in cielo dei palloncini bianchi, ha più che un’intuizione una certezza che non comprende da dove proviene. Elena è viva, in Cielo, ha cambiato luogo, dimensione, come fosse in una stanza segreta che non si può visitare. Le manca ma non è assente. «Lei è sistemata ‒ ricorda Graziella ‒, ma guardando questa folla di ragazzi in motocicletta mi è sorta una domanda. Chi penserà a loro? Come impedire che muoiano per futili motivi? Chi li proteggerà?».

La difesa dei motociclisti diventa la battaglia di Graziella. «Il solo pensiero che anche tra 20 anni io possa dire di averne salvato uno solo dà un senso alla mia vita. Penso che Elena lo avrebbe fatto, avrebbe avuto lo stesso vigore nel perseguire questo scopo».

È come una battaglia combattuta insieme. Elena da lassù. Graziella da quaggiù. «Noi due nel mondo e nell’anima. La verità siamo noi», cantavano i Pooh nel 1972. Graziella si sente sostenuta, trova energie impensabili e come un caterpillar comincia, senza un’associazione, senza un piano, affidandosi solo alla buona volontà delle persone, agli amici di Elena, a professionisti che offrono il loro aiuto su base volontaria.

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Non vuole che si muoia per motivi futili e comincia dagli spray gialli. «Tutti lo possono fare. Basta comprare una bomboletta per pochi euro e segnalare, ognuno dove si trova, tutte le buche». Si fa un cerchio giallo attorno ad ogni cavità nelle strade. È almeno un segnale di allarme, attira l’attenzione, si rallenta, si evita.

Coinvolge 240 associazioni di bikers con 630 mila iscritti. La notizia fa il giro del mondo. Ne parla anche il Times di Londra e il secondo giornale, 7 milioni di copie al giorno, del Giappone.

«Ho saputo ‒ narra Graziella ‒ di un’insegnate del Nord Italia di 75 anni che è uscita di casa con le ciabatte ai piedi, è andata in strada a segnare le buche con lo spray. Se fosse stata ancora in servizio, ci avrebbe portato tutti i suoi alunni».

Leggendo il referto medico sull’incidente della figlia, Graziella si accorge di quanto sia stato decisivo l’impatto con il guardrail. Non solo per la morte della figlia, ma, s’informa, di tanti motociclisti: in Italia ce ne sono oltre 6 milioni ed è uno dei Paesi al mondo in cui si muore di più. «Se osservate bene ‒ chiosa Graziella ‒ i guardrail sono sorretti da paletti scoperti, come una staccionata. Mia figlia è morta per l’impatto drammatico contro il guardrail, è come se fosse finita su un muro di lame. È una situazione che da 20 anni non si sblocca. Questa è la situazione dei guardrail italiani». La sua strategia è lanciare l’allarme, fare clamore il più possibile per poter essere ascoltata.

La sua battaglia per proteggere i motociclisti fa un salto qualitativo. Dopo gli spray gialli vuole che in Italia si applichi un regolamento attuativo per l’installazione di una protezione davanti ai guardrail per salvare la vita a tanti motociclisti. Non si toglie la struttura preesistente, ma si protegge.

Il ministro per le Infrastrutture a febbraio ha preparato un decreto sui guardrail per la Commissione europea che a marzo è stato approvato. Ora in Italia deve passare il vaglio della Corte dei Conti, ma sarà obbligatorio a livello nazionale. Nessuna strada nuova sarà senza guardrail salva motociclista.

«Quello che cerco di fare ‒ dice Graziella ‒ è dare speranza alle persone anche perché Elena è stata una ragazza molto generosa. Del resto non si muore. La morte è solo un passaggio». La stessa certezza cerca di infonderla a tanti genitori che stanno passando per la sua stessa esperienza con incontri che lei chiama “feste tra cielo e terra”.

«Un giorno ‒ conclude ‒ ho ascoltato questa storia. A un santo una volta hanno chiesto: “E se tutto quello in cui credi, ti accorgerai, dopo la morte, che non esiste?”. E lui ha risposto: “Forse potrai anche aver ragione. Ma quanto è stato bello crederci!”. Per me è lo stesso: “Io ci credo”. Sono sicura che rincontrerò mia figlia».

 

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