Dovunque e in nessun luogo

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Qual è la mia terra? Non saprei… mi sento a casa dovunque – nel mio villaggio natale di Skhvilisi in Georgia, in Armenia, dove ho le mie radici, o qui a Roma, dove risiedo attualmente – ma allo stesso tempo in nessun posto pienamente. C’è stata però una volta in cui ho sentito d’aver trovato una patria: su un aereo, in volo da Roma a Yerevan, proprio là dove non ero da nessuna parte!. Queste confidenze che la dottoressa Valentina Karakhanian mi fa nell’ambasciata armena presso la Santa Sede, dove lavora, non dovrebbero stupire chi conosce almeno un po’ la storia travagliata di questo popolo la cui spiccata identità e insieme apertura a tutte le culture è il risultato delle stesse divisioni e persecuzioni che ne hanno frazionato il territorio, spingendolo nella diaspora. Veramente un armeno continua ad essere sé stesso dovunque e in nessun luogo. Alla dottoressa Karakhanian, di cui mi è noto l’impegno per sostenere quel vero gioiello che è l’ospedale costruito nel villaggio armeno di Ashotzk, dopo il disastroso terremoto del 1988, su preciso mandato di Giovanni Paolo II, chiedo di raccontarmi le sue origini e i motivi che l’hanno portata a vivere in Italia. Sono armena, lo stesso che dire: sono cristiana. Infatti per il mio popolo l’identità nazionale è inscindibile da quella religiosa. E sono cattolica, con un forte senso di appartenenza alla Chiesa di Roma: questo lo devo soprattutto alla mia coraggiosa nonna Ashkhen, perché i miei genitori, in quanto dipendenti statali, sotto il comunismo non potevano esporsi più di tanto. Il 6 ottobre del ’91 ho assistito anch’io – ero una ragazzina – all’inaugurazione dell’ospedale di Ashotzk, e al vedere tutta quella gente in festa arrivata da ogni parte dell’Armenia e dai vicini villaggi armeni della Georgia, io che appartenevo ad una minoranza cattolica ho gioito con un senso di orgoglio: gli stessi sentimenti provati poi ogni volta che, attraversando quell’altopiano, vedevo profilarsi l’ospedale del papa. Lì avevo amicizie, lì potevo indirizzare malati con la certezza che avrebbero ricevuto cure gratuite e dignità. Nel ’96, la mia famiglia non era in grado farmi accedere agli studi universitari. La provvidenza però si è manifestata attraverso il mio vescovo, mons. Nerses Der- Nersessian, che mi ha trovato un posto qui a Roma e ha coperto con grande generosità le mie spese del primo anno. Ho studiato teologia e filosofia e poi psicologia, sempre però avendo in cuore di impegnarmi per l’ospedale di Ashotzk. È stato appunto in Italia che ho capito quanto quest’opera fosse, per la gente del posto, una vera testimonianza cristiana e un vivo esempio di solidarietà e amore. Credo anzi che tanti malati guariscano lì non soltanto per le medicine, ma perché trovano una famiglia in cui sentirsi amati, valorizzati, dove non sei giudicato per quale dialetto parli o da quale Chiesa provieni. Lei è la referente per l’Europa della Fondazione umanitaria San Camillo, creata per sostenere questo complesso sanitario. In cosa consiste precisamente il suo compito? C’è stato un momento in cui l’ospedale ha rischiato di chiudere per mancanza di fondi. Si sperava che un giorno il governo armeno sarebbe stato in grado di rilevarlo, ma purtroppo non è stato così. Allora i camilliani hanno creato questa Fondazione per coprire almeno in parte le spese di un’opera che va avanti grazie soprattutto ai numerosi benefattori. Il mio è appunto un compito di sensibilizzazione per reperire fondi intanto fra gli armeni stessi, soprattutto quelli della diaspora. In quale contesto geografico e umano funziona l’ospedale? Si trova nella zona più povera dell’Armenia, su un altopiano a 2200 metri sul livello del mare, dove d’inverno si arriva a 40° sotto zero. Lì, a solo pochi chilometri da una capitale come Yerevan, c’è gente che vive in condizioni disumane al limite della sopravvivenza. E c’è questo seme di speranza che è l’ospedale Redemptoris Mater, considerato oggi tra i primi in Armenia, dove il personale medico e ausiliario è composto da armeni del posto. Un ospedale diventato anche un centro di aggregazione, e dove per i problemi più vari si è certi di avere accoglienza: per il marito e la moglie che non vanno d’accordo ci sono suor Noelle e padre Mario sempre pronti ad ascoltare; lì una volta a settimana la piccola cappella Tiramayr Nareghi diventa la parrocchia dove si celebrano la messa in rito armeno, battesimi e cresime, matrimoni e funerali. Insomma tutto avviene nella grande famiglia dell’ospedale. Inoltre è stato anche la prima sede del nostro vescovo Der- Nersessian. Per tanti di noi la stanza 25 è rimasta la sua stanza, dove esattamente un anno fa, il 24 dicembre, ha consegnato la sua anima al Signore. In questo contesto sociale di estrema povertà, sono spesso le donne a sobbarcarsi da sole il difficile compito di sostentare la famiglia. Come vede e sente lei la donna armena? Innanzi tutto non posso tacere l’amore del mio popolo verso la Madonna, venerata come madre ma anche, nelle battaglie della fede, come condottiera. La sua immagine dolce e forte al tempo stesso si riflette in certo modo anche nella donna armena, quella almeno dei villaggi, dove la vita quotidiana è per il 90 per cento a carico suo. Diciamo che è il motore della famiglia. Questo è evidente nelle infermiere di Ashotzk: si svegliano prestissimo per accudire e mungere le mucche, attingere l’acqua e sbrigare le faccende di casa prima di andare in ospedale dove lavorano fino alle 5; poi di nuovo a casa dove le aspetta altro lavoro. E i mariti? Si dedicano ai lavori maschili, mentre le mogli devono fare i lavori propri e quelli dell’uomo. Sono donne forti, sono donne armene. Come vive lei questa lontananza dalla sua terra d’origine? Più volte, pensando ai dolori che hanno segnato il destino del mio popolo, mi è venuto il desiderio di ritornare fra la mia gente. Ma già la prima volta in cui ho rimesso piede nel mio Paese ho capito che i ritmi occidentali mi avevano cambiata non poco; difficilmente potrei riabituarmi ad una vita dove non esiste la concezione del tempo e tutto si fa senza fretta. Ho realizzato però che anche da qui posso essere d’aiuto, che questa esperienza in Occidente mi è necessaria per riscoprire ancora di più i valori della mia terra, quei valori che mi aiutano ad essere solidale con la mia gente e con chiunque vengo a contatto. Succede così che ho bisogno di ricaricarmi andando in Armenia almeno un mese all’anno; e poi ho bisogno anche di tornare in Italia, alla mia vita dalle sfumature più varie. E c’è poi la sua attività artistica come cantante… Mah, da noi in Georgia, dove abbiamo una ricchissima tradizione di canti popolari, la musica è la forma d’arte più diffusa. Il talento di saper cantare io l’ho scoperto per caso verso i 12-13 anni: suonavo l’organo in chiesa, mancava la solista per cantare il Sanctus, e a quel punto mi sono fatta avanti io. Da allora non ho smesso di cantare, pur non avendo mai fatto studi appositi. Il mio palcoscenico è itinerante, va da Venezia a Milano, Padova, Vicenza, Bari… anche se il luogo da me preferito – oltre ai monasteri di Haghpat e Tatev – è la mia chiesa romana di San Nicola da Tolentino, dove tutte le domeniche canto insieme ai seminaristi del Pontificio collegio armeno. Lì sono stata scoperta e chiamata a cantare nel film di Marco Bellocchio L’ora di religione: un’occasione per farmi conoscere da tanti che, innamoratisi della liturgia armena, vanno riscoprendo i valori della spiritualità. Dopo quel film ho accettato altre proposte del genere, ma senza nessuna pretesa di professionalità. Ciò invece di cui mi vanto molto è di aver cantato per i fratelli Taviani ne La masseria delle allodole, tratto dal romanzo omonimo di Antonia Arslan: finalmente un libro che racconta la verità del genocidio in un modo però che non ti fa provare odio, ma mostrando l’umanità di una parte almeno dei turchi! Leggendolo, mi ero identificata molto con la protagonista, e la provvidenza ha voluto che a solo due anni di distanza prestassi la mia voce alla bella Nunik per il suo canto d’amore Ov sirun, sirun. UN GIOIELLO SULL’ALTIPIANO 7 dicembre 1988: un terremoto provoca in Armenia oltre 100 mila vittime e centinaia di migliaia senzatetto. In soccorso alla popolazione così duramente colpita, la Caritas Italiana costruisce nel villaggio di Ashotzk (a 110 chilometri da Yerevan e 11 dal confine georgiano) un ospedale, e inoltre quattro scuole elementari e 22 presidi sanitari (in seguito 23) in altrettanti villaggi dell’altopiano. 2001: con decreto governativo, l’ospedale di Ashotzk (denominato Redemptoris Mater) e gli ambulatori ad esso collegati passano di proprietà alla Fondazione Umanitaria San Camillo che ne segue anche la gestione in piena autonomia, per conto dello Stato. Dotato delle più moderne attrezzature tecnico-scientifiche e con una disponibilità di circa 100 posti letto, l’ospedale con la sua rete di ambulatori è diventato esempio di funzionalità ed efficienza (è l’unico, regolarmente funzionante in territorio armeno, ad erogare un’assistenza qualificata e gratuita). La popolazione del distretto sanitario è di circa 15 mila persone, cui si aggiungono pazienti dalla vicina Georgia e da ogni parte dell’Armenia. Circa 17 mila le consultazioni effettuate annualmente.

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