Dove si ingegnano per lo sviluppo

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Il fuoristrada di Edson sfreccia a ottanta all’ora sfiorando le due cortine di foglie che in questa stagione invadono la stretta strada sterrata che dalla cittadina di Redençao porta a Vazantes, un villaggio di circa duemila anime. Stento a credere che ci troviamo in pieno semi-arido – tale è infatti gran parte del territorio dello Stato brasiliano del Cearà e degli Stati confinanti. La vegetazione è costituita da cespugli verdissimi che qua e là lasciano il posto a spiazzi erbosi e a coltivazioni di cajù, un albero particolarmente resistente alla siccità, che produce un seme pregiato, l’anacardo. Nei punti più infossati incontriamo larghe pozze d’acqua. Io veramente lo chiamerei semi-umido, obietto. Padre Pedro Rubens, il giovane rettore dell’Università catolica do Pernambuco di Recife, che è nato proprio qui, sorride e mi spiega che siamo ancora in piena stagione delle piogge, che quest’anno sono state molto abbondanti, forse anche troppo. Ma se uno viene qui alla fine degli otto-nove mesi di secco ininterrotto si rende subito conto dei problemi di questa gente, che deve sopravvivere con un clima inclemente e inaffidabile. È per questo che la gente abbandona i villaggi e si riversa nelle città della costa. Fortaleza una ventina di anni fa aveva poco più di un quarto degli attuali tre milioni di abitanti. I nuovi arrivati vanno ad affollare sempre nuove favelas. Anche se le baracche di legno e lamiera hanno largamente lasciato il posto a più solide casupole di mattoni, le condizioni di vita, sia dal punto di vista economico che sociale, restano difficili. Dietro il boom del turismo sessuale, in larga parte proveniente dall’Italia, c’è la disperazione di tanti nordestini che non riescono a vedere migliori vie di uscita dalla loro condizione. La prima tappa della visita è una cooperativa di piscicoltura, che utilizza le acque di un grande lago artificiale. Ci fa da guida Dimas, un giovane tecnico agrario che su questa attività, decisamente innovativa in questa zona, sta preparando una tesi di dottorato: Ora una decina di capofamiglia possono finalmente godere di un lavoro dignitoso e di reddito adeguato; in questo mo- do il lago che rifornisce d’acqua la capitale dà qualche beneficio anche a chi abita qui, dichiara con una punta di orgoglio mentre ci mostra i pesci guizzare nelle grandi casse di rete metallica che spuntano dalla superficie. Certo, senza qualcuno che porti qui le tecnologie e le competenze necessarie, che abbia una capacità progettuale, che sia in grado di trovare i finanziamenti necessari e si impegni a dare un supporto tecnico e organizzativo per un sufficiente periodo di tempo, difficilmente potrebbero fiorire iniziative come questa. Questo qualcuno è la Fundaçao fé e alegria (Fondazione fede e gioia), un’organizzazione non governativa promossa dai gesuiti sudamericani. Seconda realizzazione, un panificio, sistemato in un piccolo locale riadattato: nel retro due forni elettrici e un’impastatrice, sul fronte strada un piccolo banco per servire i clienti. Alcuni giovani sorridenti mostrano il prodotto fragrante del loro lavoro, che, grazie ad un furgoncino acquistato dalla fondazione, viene distribuito quotidianamente anche nei villaggi vicini: un piccolo lusso fino a poco tempo fa impensabile. Un prezioso contributo tecnico e organizzativo al progetto lo sta dando Pedro Adolfo, un giovane ingegnere di Recife che è una sorta di braccio destro del rettore. A tenerlo impegnato in questi mesi è il nuovo centro sociale, una semplice costruzione ad un piano che ospiterà la biblioteca, una sala riunioni e un’auletta computer. Quando si troveranno i soldi per comprare un po’ di macchine, anche i ragazzi di qui potranno diventare cittadini del mondo di Internet. Attorno troverà posto un orto comunitario, che permetterà agli abitanti di impratichirsi nelle tecniche dell’orticoltura, che pochi conoscono. Pedro, che a vederlo sembra più uno studente che un funzionario padre di due figli, è coinvolto anche nel progetto Economia di Comunione (EdC), ben noto a molti lettori di Città nuova. Per inciso, qui nel Cearà lo specifico contributo di quest’ultima ad una vita economica orientata alla crescita della persona, a cominciare da chi ha di meno, sembra passare prima di tutto per la collaborazione fraterna e lo scambio di idee e di esperienze con altre organizzazioni della società civile ed ecclesiale. Tra questi c’è Shalom, un vitalissimo movimento spirituale nato meno di trent’anni fa proprio a Fortaleza. Alcuni suoi membri sono impegnati a promuovere una economia umana di reciprocità, sia attraverso un lavoro culturale che diffonda una responsabilità solidale, sia avviando imprese che creino reddito e posti di lavoro a favore dei più indigenti, e in ambedue hanno attinto alle idee e all’esperienza dell’EdC (e viceversa). L’impegno della fondazione ha convinto le autorità a non chiudere la scuola media di Vazantes, decisione che avrebbe dato un altro duro colpo alle prospettive di vita nel villaggio. Per inciso, a mantenere grandi masse di brasiliani in condizioni di indigenza, oltre all’annosa questione della proprietà della terra, concentrata in pochissime mani, contribuisce l’inadeguatezza dei servizi pubblici. È significativo il fatto che in una città ad un paio d’ore da qui che abbiamo visitato successivamente, Quixadà, sia l’ospedale che l’università siano frutto dell’iniziativa di un intraprendente vescovo, prima che degli amministratori locali. Un rapporto della Banca mondiale sullo Stato del Cearà loda i grandi passi avanti compiuti negli ultimi due decenni nel migliorare la condizione dei più poveri (per dirne una, la mortalità infantile è passata da un tragico 150 per mille ad un più accettabile 50 per mille) e dà buona parte del merito ad un rinnovamento del modo di operare delle amministrazioni pubbliche locali. Forse però l’aspetto più significativo del progetto Vazantes è una serie di piccole iniziative sostenute dall’apporto volontario di un gruppetto di animatori: un servizio di prestito di giochi usati, affiancato ad un laboratorio in cui i ragazzi possono riprodurre quei giochi con le loro stesse mani; vari gruppi musicali, una scuola per apprendere il linguaggio dei non udenti; una rock band e un gruppo di danza folcloristica. Assistendo al festoso spettacolo organizzato più tardi per noi ospiti, pensavo che ha ragione Amartya Sen, premio Nobel per l’economia per i suoi studi sulle caratteristiche e sul significato dello sviluppo: il benessere di una collettività non si misura con il prodotto pro capite, né con il valore dei beni acquistati e consumati, ma con i funzionamenti che i suoi membri riescono ad ottenere: nutrirsi, difendersi contro malattie curabili, essere istruiti… fino a poter praticare uno sport, coltivare un hobby, e così via. Ammirando le armoniose evoluzioni corali di questi ragazzi e ragazze di paese, splendidi nei loro variopinti costumi, mi chiedo cosa avrebbe potuto ottenere ciascuna delle loro famiglie con un po’ di potere d’acquisto in più: forse qualche altra suppellettile per la casa o qualche altro oggetto reclamizzato dalla tv, ma non certo un’esperienza collettiva come questa, nella quale i ragazzi svolgono proprio il ruolo di attori (la agency, ossia l’opportunità di agire, e non solo di consumare, è un’altra delle parole chiave della visione del benessere di Sen). Penso anche a quanto ho letto negli studi sulla felicità, che essa dipende abbastanza poco dai beni materiali, mentre contano molto il significato che i soggetti riescono a dare alle attività che svolgono e l’inserimento in una rete di rapporti interpersonali positivi. Nel viaggio di ritorno ripenso a questa versione moderna delle riduzioni (le città indigene che proprio i gesuiti avevano realizzato al confine meridionale del Brasile nel XVII secolo) che oggi ho avuto occasione di visitare: un piccolo ma significativo esempio di sviluppo umano integrale.

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