Dentro la crisi dell’Occidente

In un certo senso, coloro che diffidano dei sapientoni possono avere ragione. I sapientoni sono quelli che credono di sapere come stanno veramente le cose, credono di avere sciolto gli enigmi della vita, e magari pensano pure di conoscere a menadito le oscure leggi che regolano il cosmo. Sanno talmente tanto su tutto, che alla fine si lasciano sopraffare dall’idea che di fronte alle inderogabili leggi cosmiche ci sia poco da fare. Secondo costoro, la saggezza consiste nel rimanere assorti di fronte alla vastità delle cose e, di conseguenza, collocarsi al posto che realmente compete a ciascuno: il posto dell’inerme che ha consapevolezza che poco si può fare di fronte all’inesorabile meccanismo che regola ogni cosa. E per confermare tali sentenze questi sapientoni si prodigano nella descrizione della crisi, della decadenza, del degrado. Si tratta di un problema vecchio come il cucco, già in rilievo nei primi secoli del cristianesimo, quando esso ha incontrato la filosofia greca e si è prodotta una tensione forte fra la cosiddetta filosofia della necessità ellenistica e la metafisica della libertà umana d’ispirazione cristiana. Sì, perché non c’è alcun dubbio che il cristianesimo non può essere riassunto in una filosofia, essendo una dottrina della salvezza basata sulla rivelazione del destino della famiglia umana. Un destino che si costruisce attraverso l’impegno personale e comunitario e un’autentica vita basata sul messaggio di Gesù, il Messia, che ha annunciato la buona novella, non la triste realtà. La storia della sapienza cristiana, in tal senso, è anche storia del rapporto fra la contingenza e l’universalità, fra la storia e l’eternità, fra l’azione salvifica di Dio e la finitezza dell’esperienza umana. Giuseppe Maria Zanghì è un sapiente, non un sapientone, proprio perché continua a trasmettere le verità connesse con la buona novella, rivestendole di una luce particolare, quella che può riassumersi nel cosiddetto paradigma trinitario. Non si tratta di roba riservata solo alle raffinatezze della migliore teologia, ma di vita vissuta, quotidiana, alla portata di tutti, perché in ciascuno e in tutti alberga la profonda verità della persona umana, fatta a immagine e somiglianza di Dio uno e trino. Fra le dense pagine dell’ultimo volume di Zanghì, Occidente, la mia terra (Città Nuova, Roma, 2008) riecheggiano i temi più cari della sua vasta e specialissima opera di studio, incardinata nella spiritualità dell’unità e, non solo me- taforicamente, proiettata nella sapienza di Dio. In ciò, Zanghì affronta il problema della cultura concependola non solo come mezzo di umanizzazione, ma quale sfida e orizzonte. Si tratta di penetrare nel mistero del meccanismo che vuole l’eterno e universale messaggio di salvezza divina incarnarsi, e con ciò tradursi, di volta in volta in storie singolari, limitate, finite. In questo, l’autore c’invita ad ammirare il grande dono che Dio creatore fa agli uomini e alle donne di ogni tempo: averli resi protagonisti – non epifenomeni, non comparse occasionali – della Rivelazione. Occidente, la mia terra è un insieme di articoli sul tema della cultura del mondo occidentale, scritti dall’autore nella sua decennale attività di responsabile della rivista Nuova Umanità. L’organizzazione di tali articoli è stata operata da Antonio Maria Baggio, il quale ha anche steso una introduzione utile per guidare il lettore nei molteplici percorsi tracciati da Zanghì. L’autore, difatti, si spinge nel tramonto culturale della nostra realtà, ponendosi proprio sulla linea di separazione, dove il chiarore è sufficiente per intravedere il nuovo a partire dalle valutazioni di ciò che sta passando. Democrazia, secolarizzazione, mistica, massificazione della cultura, ateismo: sono tratti della nostra cultura che devono potersi rapportare nell’idea di Assoluto che fonda e sorregge un sistema culturale. Con le parole di Zanghì: Una cultura è costruita sempre su un assoluto (…), una cultura è caratterizzata dal tipo di assoluto che è alla sua base. Il dialogo non più dilazionabile fra le grandi culture del mondo sarà un dialogo di assoluti! Ora, l’Assoluto cristiano non è l’Uno plotiniano (…), né l’Uno dei Veda, né, parlando con esattezza, il Dio unico pensato dalle grandi tradizioni monoteistiche ebraica e islamica. L’Assoluto cristiano è la Trinità! (…) Una cultura cristiana che voglia essere tale deve riflettere l’Assoluto che la abita e la modella. La coscienza cristiana deve abituarsi a vivere con l’Uno-Tre in sé stessa e nei rapporti interpersonali (p. 169). Affiora così, fra le pagine del libro, l’esortazione alla riscoperta della naturale vocazione dell’Occidente: dare una consistenza alla vita, riconoscendo l’Essere, l’Assoluto, come Amore, giacché Trinità. Quindi, si tratta di una legge vitale intesa come dono, dunque, un morire, ma nell’esercizio massimo di noi stessi, un morire-vivendo. Ecco l’umanesimo integrale verso il quale dobbiamo procedere. E allora, tutto ciò che è ancora fuori della Chiesa – il mondo che attende l’evangelizzazione, il mondo con le sue magnifiche intuizioni del divino e con le sue incompiutezze e deviazioni – è, per il Cristo crocifisso e abbandonato, cultura in suo modo già cristiana: cultura, cioè, nella quale non sono ancora emerse le forze della risurrezione ma nella quale esse stanno maturando, perché il Cristo nell’abbandono della Croce l’ha fatta sua, l’ha crocifissa in Sé per la resurrezione (p. 201).

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