Debussy, l’impressionista

C. Debussy, Pelléas et Mélisande. Roma, Teatro dell'Opera.
Debussy

Torna nella capitale, dopo oltre un ventennio, l’opera rivoluzionaria del musicista francese che nel 1902 scosse le acque del melodramma europeo, sedotto dalla potenza di Wagner, dirigendolo verso atmosfere più rarefatte, dove il “simbolo” è più forte della storia stessa. La vicenda che Debussy ha tratto dal testo di Maurice Maeterlinck certo è sempre una storia d’amore contrastata, «accompagnata da zone d’ombra che scendono nell’abisso dei sentimenti e dei rapporti», perché i due amanti concluderanno la loro vita, inesorabilmente, con la morte della dolce e forte Mélisande.

 

Eppure, nei cinque atti che si susseguono con una calma stringente, il “declamato” vocale dei personaggi, sempre nobile e con accenti “gregoriani” – non “si canta” in Debussy, ma si “declama” –, dà vita alle pulsazioni più intime dei sentimenti. Li estrae dal cuore con una forza “leggiadra”, come in un quadro di Moreau: la gelosia comprensibile di Golaud, sposo di Mélisande, la morale disarmata del vecchio Arkel – ciò che accade è frutto di qualcosa di imponderabile –; la morte conclusiva di Mélisande stessa, triste eppure non disperata.

L’orchestra sottolinea come un fiume mormorante ogni passaggio sentimentale, accompagna il dramma evocando sfumature dell’inconscio con impasti strumentali che ricordano le tinte degli impressionisti, fa assumere ad ogni strumento un valore di simbolo, evidente.

Nulla è lasciato al caso: le voci sono echi di emozioni, gli archi evocano un fruscio erboso, gli ottoni, pur limitati nello squillo, sanno di colori forti.

 

Qui siamo di fronte ad un modo nuovo di far musica. La si dipinge a tocchi liquidi, a macchie, è più un mormorio che un grido. Ma quanto immenso dolore vi sta sotto lo si coglie, si direbbe, ad ogni passo. Perciò il lavoro di Debussy non ha avuto seguaci. Non li poteva avere: troppo originale, troppo espressivo da non poter sopportare successori, nemmeno da parte dell’autore stesso.

A Roma, la direzione soffice e giusta di Daniel Kawka ha restituito colore alla sensibilità impressionista di Debussy, smorzando le sonorità per esaltare la raffinatezza dei timbri orchestrali, mentre i cantanti-attori (il secondo cast) giustamente applauditi, restituivano credibilità ad un racconto musicale che seziona i sentimenti con apparente distacco, ma sa arrivare fino alle midolla dell’animo.

Pierre Audi, regista di notevole creatività, ha dato rigore ad un allestimento molto bello, curato da Anish Kapoor: un unico elemento centrale, rosso fiamma, semovente, la cui essenzialità corrispondeva alla melodia lineare di Debussy. Un solo peccato: la scarsa affluenza del pubblico, poco sensibile, purtroppo, ad opere che non siano “popolari”.

 

 

L’opera in cd e video: fondamentali le incisioni di Karajan, 1954 e Clutytens nel 1956; più vicine a noi, le migliori, dirette da Boulez, 1970 e da Abbado nel 1986. Per i video, buone le versioni dirette da Gardiner nel 1987 e da Davis nel 1991.

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