Cosa attrae davvero un giovane?

Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Federico Rovea a proposito di alcune critiche rivolte alle conclusioni del Sinodo sui giovani. “Cristo si è fatto carne e non un manuale di istruzioni”  

Il 4 novembre scorso la giornalista e scrittrice Costanza Miriano ha pubblicato sul suo blog una riflessione riguardo il documento finale del Sinodo dei Vescovi su “I Giovani, la Fede ed il Discernimento Vocazionale”.

L’articolo che titola “Sinodo: il grande assente” propone una riflessione critica riguardo le indicazioni finali del Sinodo dei Giovani 2018, ma contiene anche una più generale posizione riguardo la relazione tra Chiesa e giovani generazioni.

Lungi dal voler scambiare un post per un trattato di teologia pastorale, ci sembra che dal confronto tra il documento finale del Sinodo e l’articolo in questione sia possibile trarre indicazioni preziose sullo stato del rapporto tra Chiesa e giovani, e sulle diverse modalità di approccio alla questione.

Una doverosa premessa: non si intende proporre una riflessione approfondita e circostanziata su un fenomeno tanto attuale quanto complesso, ma piuttosto fornire qualche spunto di riflessione a partire dall’attualità.

La posizione della Miriano è piuttosto netta: il documento sinodale è affetto dall’imperdonabile assenza del riferimento al peccato originale.

A dominare la riflessione del documento sono la retorica dell’ascolto, dell’accompagnamento e della comprensione, che non hanno valore se a priori non vengono ribadite alcune verità fondamentali: il peccato originale in primis, insieme all’inferno, alla vita eterna etc.

Queste sono le verità fondamentali della fede che devono essere insegnate ai giovani, tutto il resto è un – seppur interessante – contorno. In altre parole, se non si trasmette ai giovani che cosa è vero e che cosa è falso lo sforzo dell’ascolto è tempo perso, è solo compromissione con la realtà. Insomma, dalla descrizione che ne fa la giornalista, il documento finale del Sinodo (per quanto l’autrice non manchi di ribadire il rispetto per il lavoro dei vescovi) emerge come una leggera affermazione di buoni sentimenti e cedimento alla mentalità mondana.

Alla lettura del documento, un elemento attrae subito lo sguardo. Il linguaggio utilizzato effettivamente abbonda di una terminologia che si potrebbe definire emotiva: il dialogo, l’ascolto, l’empatia, la comprensione sono i lemmi che ritornano con più frequenza.

Tuttavia, se non ci si ferma all’impressione iniziale, si scopre un’argomentazione che – pur senza prese di posizione rivoluzionarie – disegna con chiarezza alcuni temi fondamentali sulla relazione tra Chiesa e giovani generazioni. La secolarizzazione, la differenza culturale, la crisi migratoria, i costumi morali sono individuati come nodi da prendere in considerazione in un’ottica aperta e dialogante, come luoghi privilegiati in cui incontrare le necessità spirituali dei giovani. Non sono poi da trascurare i riferimenti critici ai casi degli uomini di Chiesa che con il loro atteggiamento hanno contribuito all’allontanamento dei giovani.

Sarà questo un tentativo di svecchiare una Chiesa con tassi di partecipazione giovanile in caduta libera o un’apertura autentica alle necessità dei giovani? Leggendo il documento in parallelo al commento della giornalista, la domanda è inevitabile.

La Miriano dal canto suo afferma di conoscere bene quali siano le necessità delle giovani generazioni oggi: «Non è la limitatezza degli uomini di Chiesa a tenerli lontani, ma il fatto che non parlino più di vita eterna, peccato, morte, inferno, e che quindi non venga più percepita come necessaria, come unica via di accesso al sacro».

Il punto centrale allora – pare di leggere tra le righe – non è nemmeno la dimenticanza del peccato originale in sé, ma è più in generale il riferimento troppo leggero alle Verità della fede cattolica. Il Sinodo avrebbe mancato di mettere al centro della riflessione il complesso di Verità che la Chiesa ha da offrire ai giovani, e che rappresenterebbe ciò che di più attrattivo possiede.

Insomma, la pedofilia nella Chiesa e il mutamento dei costumi sociali non c’entrano nell’allontanamento dei giovani. Il cuore della questione è che loro vogliono sentir parlare di verità assolute, vogliono il Paradiso e l’Inferno, vogliono che qualcuno dica loro cosa possono e cosa non possono fare. Vogliono una Chiesa che dia una parola definitiva, e il Sinodo non se n’è accorto.

Sembra da questo veloce schizzo di intuire che tra il documento del Sinodo e Costanza Miriano sia in gioco molto più che una diversa visione del mondo giovanile. Si posso piuttosto distinguere due modi radicalmente diversi di interpretare la Chiesa e il suo ruolo nella contemporaneità, ma anche della vita di fede più generalmente intesa.

Dal Sinodo dei vescovi emerge un’immagine della Chiesa che – con il peso dei limiti che un processo come questo porta con sé – tenta con fatica di ritrovare una connessione con la quotidianità. Una Chiesa che attraverso la domanda posta dalla sete di senso dei giovani cerca di ridisegnare il proprio posto in un mondo in rapido cambiamento, forse scivolando eccessivamente verso un linguaggio conciliante e peccando a tratti di “giovanilismo”, ma impegnata in un percorso tanto faticoso quanto autentico.

La critica della Miriano si posiziona esattamente dalla parte opposta della barricata. Al linguaggio dell’empatia risponde con quello della Verità, a quello dell’ascolto con quello del Dogma.

I giovani non vanno ascoltati, vanno educati: proposta decisamente condivisibile, se non fosse inserita in una cornice ideale che confonde la formazione con la trasmissione di un sapere. La sete di senso andrebbe soddisfatta proponendo un pacchetto di proposizioni – o così o niente –, una proposta etica e metafisica totalizzante, che fornisca al giovane sperduto nel mondo dei solidissimi principi a cui conformare i propri comportamenti e il proprio credo.

Forse eccedendo nell’interpretazione, si scorge dietro a questo modo di argomentare una vecchia polemica contro quello che un tempo veniva chiamato “modernismo”, e che oggi si identifica nell’essere favorevoli o contrari a un’apertura della Chiesa ai mutamenti della società.

Chi come la Miriano concepisce la Chiesa Cattolica come una fonte di verità e principi etici immutabili da proporre sempre uguali a sé stessi (e se la società cambia e non li può accettare, tanto peggio per la società) sotto sotto rifiuta il cambiamento, che spaventa e chiede un esercizio più fine della virtù del discernimento invece che quella dell’apologia.

Il rifiuto che si intuisce non è rivolto all’atteggiamento dei vescovi, ma alla tarda modernità in sé stessa – società post-industriale, secolare, pluralistica – sorretta da una nostalgia poco fruttuosa per una societas christiana perduta.

In questa visione non c’è spazio per mutamenti antropologici, per la revisione del linguaggio, per l’empatia. In fondo, non c’è spazio per l’alterità, quell’evento che scombina le nostre visioni del mondo e ci spinge a migliorarle.

Se da parte dei vescovi si vede invece un tentativo – per quanto embrionale – di riscoprire i valori cristiani nella società di oggi e non sulla società, uno sforzo di comprendere profondamente la realtà vissuta dai giovani prima di dire loro come devono affrontarla, una volontà di scoprire che cosa dice Cristo oggi (che poi, se si è fatto Carne e non Manuale di Istruzioni un motivo ci sarà), ecco, forse è questa la migliore strada da percorrere.

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