Controlli alla frontiera

L’atteggiamento delle polizie europee (e di tanta parte della popolazione) nei confronti dei migranti del Sud del mondo è spesso intriso di un “pregiudizio di colpevolezza” comprensibile ma non sempre giustificato

Torno brevemente in Europa dopo qualche mese di soggiorno in Libano, un Paese che non è tanto lontano geograficamente dalla Vecchia Europa, ma che è comunque integrato in un sistema di vita e pensiero, come quello mediorientale, che gode di una sua ricchissima storia e perciò di una sua autonomia. Cerco di guardare ogni cosa, ormai, come se io fossi un mediorientale. Non lo sarò mai veramente, ma la compartecipazione alle vicende della regione non può esimermi dal fondamentale principio di solidarietà.

Ed è così che, in modo del tutto particolare e per me insolito, osservo l’atteggiamento che le polizie europee hanno nei confronti di chi viene da regioni lontane e non europee. All’aeroporto di Atene, in scalo, una pattuglia di poliziotti arresta un gruppo di tre palestinesi e li trattiene con modi spicci per una ventina di minuti, prima di rilasciarli e farli partire per Roma. A Fiumicino le file dei viaggiatori non-europei sono ovviamente più lente, perché non ci sono passaporti elettronici da passare rapidamente sui lettori ottici. Nulla di nuovo, tocca anche a noi europei quando sbarchiamo in Paesi extra-europei. Ma l’attenzione delle guardie di frontiera è particolare, indubbiamente, come testimonia la presenza di cani antidroga, di metal detector dedicati anche all’entrata nel nostro Paese, di una buona quantità di agenti in borghese che osservano gli eventi con fare annoiato, seppur vigile.

All’uscita i bagagli non vengono praticamente controllati, salvo per chi manifesta segni anatomici non squisitamente “caucasici”, cioè europei. Anche io mi trovo ad uscire assieme a un gruppo di arabi e, guarda caso, vengo controllato, forse la mia pelle è troppo abbronzata. Non mi era mai capitato a Fiumicino, per i cui gate sono passato centinaia di volte. Quando s’accorgono che il mio passaporto è italiano, mutano atteggiamento e cominciano a scherzare di Juve e Milan. Meno fortunato è un collega libanese che deve lasciare sul banco alimenti e due bossoli recuperati nel suo lavoro in Siria. Non c’è disprezzo nello sguardo dei doganieri, ma un’altezzosità che mi dà fastidio. Non l’avevo mai notata.

Mi capita poi di passare due giorni in Svizzera, ed è sul treno tra Milano e Zurigo che assisto a una serie di controlli che riguardano solo ed esclusivamente delle persone chiaramente non europee. In particolare dura mezz’ora un sistematico controllo di tre guardie di frontiera svizzere ad altrettanti migranti egiziani, pur forniti di regolare visto. Un accanimento che riguarda documenti, bagagli, in fondo anche i pensieri. Così mi trovo a simpatizzare per loro, anche se non avrei motivi particolari per farlo, e a capire la loro rabbia contenuta, il disagio per il lungo essere sottoposti agli sguardi indagatori dei passeggeri del vagone, l’insofferenza di essere additati dagli sguardi tutt’altro che benevoli delle guardie. Un passeggero egiziano ha un passaporto appartenente ad un amico che non è con loro. Perché mai? E’ la scintilla che fa intestardire le guardie, che fanno almeno dieci telefonate ai colleghi per i controlli, pur necessari. La gentilezza non viene mai meno agli agenti, sono svizzeri, ci mancherebbe; ma è il disdegno negli sguardi e nei gesti che mi dà francamente fastidio.

Noi europei abbiamo il diritto e il dovere di controllare, ci mancherebbe, la legge va fatta rispettare. Come lo hanno tutti gli agenti degli Stati sovrani, anche in Medio Oriente o in Africa. Ma l’altezzosità europea non dovrebbe essere necessaria. Perché dobbiamo considerarci superiori ai mediorientali, agli asiatici, agli africani? Questo è un mistero.

 

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