Congiuntivo sarà lei

Il nostro Paese ne ha fatto una questione nazionale. C'è chi lo usa, chi lo storpia, chi vive senza.
Totò Peppino De Filippo

La scena è di quelle surreali. La partita di tennis si gioca tra due attempati apprendisti in un anonimo campo avvolto dalla nebbia. «Allora, ragioniere, che fa? Batti!», esorta l’occhialuto Filini. «Ma mi dà del tu?», insorge risentito Fantozzi. «No, no, dicevo: “Batti lei!”», si affretta a chiarire il collega. «Ah, congiuntivo…», conclude il ragioniere, che con quel primo film – correva l’anno 1975 – diverrà il mitico Ugo Fantozzi, incarnando la figura dell’impiegato medio, che continuerà a possedere anche nelle pellicole successive scarsa dimestichezza con quel modo verbale.

Paolo Villaggio è ritenuto dagli esperti il più grande erede di Totò nell’uso del congiuntivo popolare, per non dire maccheronico. «Ma mi faccino il piacere», sbottava il grande attore napoletano in più di un film, così come «se ne vadino», «digli che ti dasse», «mi permettino».

Film di grande successo, visti e rivisti con grande piacere, ma con il grave rischio che quegli errori finiscano ogni volta per entrare nell’uso degli spettatori. Insomma, una sorta di attentato all’italica identità, composta pure dal congiuntivo (correttamente usato).

Sì, perché esiste da tempo nel nostro Paese – avvezzo com’è a interrogarsi sulle problematiche cruciali – una vera e propria “questione del congiuntivo”. Se il 2 e 3 marzo 2000, a Forlì, presso la Scuola superiore per interpreti e traduttori, si tenne un convegno internazionale interamente dedicato al congiuntivo è un fatto che ci può lasciare indifferenti. Ma in quel simposio, un’apposita commissione suggerì al ministero delle Finanze di semplificare la lingua del “Modello unico” per la denuncia dei redditi. La proposta, risolutiva nei confronti di una prosa zeppa di termini burocratici, fu di ridurre la presenza dei congiuntivi.

 

Indizi, questi e altri, che attraversano i foschi pensieri degli italiani preoccupati di sapere una buona volta se il congiuntivo sia già scomparso o stia vivendo la sua ultima, irreversibile agonia. La legittima ansia percorre anche i siti web, entra nei blog, sbarca su Facebook, che ospita il gruppo “Lottiamo contro la scomparsa del congiuntivo”. Un anno prima è nato il comitato Sic, sigla di “Salviamo il congiuntivo”.

Già dieci anni orsono, il dotto linguista Edoardo Lombardi Vallari tratteggiò un quadro drammaticamente realistico di un Paese spaccato: «In Italia la popolazione si divide in due grandi categorie: la prima è costituita dalle persone che, a proposito delle frasi introdotte da verbi come credere che, sembrare che, volere che, si domandano: “È giusto l’indicativo o il congiuntivo?”. La seconda è costituita da coloro a cui di continuo qualche membro della prima categoria pone la medesima domanda».

Difficilmente si pongono un quesito del genere molte persone delle classi popolari, tanto che sbagliare un congiuntivo è ritenuto un errore dei poveri e quindi perdonabile. Non è invece ammessa indulgenza alcuna quando gli strafalcioni esprimono l’ignoranza dei nuovi ricchi: vadi, dassi, stassi, facci – gli sbagli più diffusi –, o il ricorso all’indicativo: «Vorrei che ne parliamo», «Desidero che ci sei anche tu».

I calciatori sono tra i più presi di mira tra quanti usano erratamente il congiuntivo o non lo usano affatto. Ma sono in buona compagnia con gli allenatori, Giovanni Trapattoni per antonomasia, e con un conduttore come Aldo Biscardi. Antonio Di Pietro e altri politici – persino ministri – restano in perenne lotta con il congiuntivo, come tanti personaggi dello spettacolo.

 

Il fatto è che nel Bel Paese, mentre sembra ormai esangue il comune senso del pudore, gode di invidiabile salute il “comune senso dell’errore”. Del congiuntivo, in modo particolare. Per cui, «un uso sbagliato o mancato fa rumore, produce, nelle orecchie delle persone attente alla lingua, lo stesso effetto sgradevole del gesso che scricchiola sulla lavagna», annotano Valeria Della Valle e Giuseppe Patota in Viva il congiuntivo (Sperling & Kupfer). Gli effetti? «Dal disprezzo indignato all’elogio di un passato in cui i congiuntivi non si sbagliavano (e invece si sbagliavano, eccome), dalla compassione divertita all’ilarità compiaciuta».

Qualche responsabilità è forse da addebitare ai messaggini sul cellulare. Nient’affatto, rispondono i due linguisti: «L’espansione dell’indicativo ai danni del congiuntivo è il frutto della pressione esercitata dall’italiano parlato, ma questa sostituzione è più lenta e meno generalizzata di quanto si sia portati a pensare».

Tiriamo, allora, un sospiro di sollievo. Ma va anche detto che non è facile rimediare, perché il congiuntivo resta una faccenda – checché ne dicano gli studiosi e i professori del liceo – difficile da imparare e ancor più da usare. Si fa presto a dire che una delle sue principali funzioni è quella di esprimere il dubbio e l’incertezza (introdotto da “penso”, “mi sembra”, ecc.), ma poi c’è il congiuntivo esortativo (Esca subito da questa stanza!), quello desiderativo (Magari mettesse la testa a posto…) e altro ancora.

Ad un ospite sconosciuto che gira per casa vostra non dite: «Mi chiedo chi la ha invitato», ma «chi lo abbia invitato». E se vostro marito è arcisicuro di come siano andate le cose, attenti a dirgli: «Credo proprio che hai torto», perché avreste fatto meglio a tacere o a usare «credo proprio che tu abbia torto».

Queste puntualizzazioni potrebbero suonare accademiche sottigliezze in questo tempo gramo che invita a badare al sodo. Ma è molto più vero che chi parla male pensa male. E Dio sa quanto, soprattutto nei periodi di crisi, c’è (o “ci sia”? Voi lettori cosa ne dite?) urgente bisogno non solo di pensare, ma di pensare bene.

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