Come riuscire a perdonare?

Mi risulta molto difficile perdonare. Potrebbe darmi qualche suggerimento psicologico, in merito? G.F. – Napoli Lo statunitense Everett Worthington è autore di un celebre libro sul perdono (Five steps to forgiveness, Crown, New York 2001). Cito questo psicologo perché recentemente ha avuto la possibilità di confermare quanto aveva scritto nel suo libro, dopo che la sua anziana mamma è stata picchiata e uccisa con una spranga di ferro ed una mazza da baseball da due balordi intrufolatisi nella sua casa per un furto. E conoscere i dettagli della lotta psicologica intrapresa da Worthington con successo per riuscire a perdonare questi assassini è un grosso aiuto per tutti coloro che vorrebbero perdonare ma non ci riescono. Worthington descrive un processo in cinque fasi (certo non facile né rapido) che definisce R.E.A.C.H.: gioco di parole tra l’acronimo costituito dalle iniziali di ognuna delle frasi seguenti, e il verbo to reach che significa sia giungere a, sia riuscire a fare qualcosa come, appunto, riuscire a perdonare. R sta per rievocare il torto subito e nel modo più oggettivo possibile: non pensare all’altra persona come al Male, e cercare di non indugiare in pensieri di autocommiserazione. E mentre si prova a visualizzare l’evento accaduto, fare dei respiri profondi e lenti che contribuiscono a calmarci: Cercai di immaginare come dovevano essersi sentiti i due ragazzi mentre si preparavano a svaligiare una casa tutta buia… Fermi nel vicolo, erano tesi, agitati. Questa va bene – avrà detto uno dei due -. Qui sono tutti fuori: è buio pesto. Nel vialetto la macchina non c’è – avrà detto l’altro -. Questi sono senz’altro a un veglione. Non potevano sapere che mia madre non aveva la patente, e quindi nemmeno l’auto… Oh no, avrà pensato uno, ecco: m’ha visto in faccia. Questo non doveva succedere… Da dove esce questa vecchia? Oh Cristo, è terribile, questa è capace che mi riconosce. Mi sbatteranno dentro. Questa dannata vecchia mi rovinerà la vita. E sta per empatia. Cercare di capire, mettendosi nei panni del colpevole, perché quella persona vi fa, o vi ha fatto del male. Non è facile, ma provare a inventare una storia plausibile che il colpevole racconterebbe se dovesse spiegare il suo gesto. Per aiutarci ricordiamo che quando sentono che è in gioco la loro sopravvivenza, molti non esitano a far del male a chiunque, per quanto inerme e innocente; chi attacca un proprio simile è solitamente in uno stato di terrore, ansia e disperazione; la situazione in cui la persona viene a trovarsi – e non la sua normale personalità – può indurla a fare del male; le persone nello stato di cui sopra non pensano, mentre fanno ciò che fanno, ma sono in preda ad un raptus, non sono in sé. A sta per concedere il dono altruistico del perdono, un altro passo molto difficile, ma essenziale. Cerchiamo di ripensare a un episodio in cui noi eravamo in colpa, ci sentivamo colpevoli e siamo stati perdonati. È stato un dono che ci è stato fatto da un’altra persona quando e perché ne avevamo bisogno, e gliene siamo stati grati. Concedere questo dono solitamente ci fa sentire meglio, ma non lo si fa per il nostro bene: è per il bene del colpevole. Dirci che possiamo ergerci al di sopra del male e della vendetta, che perdonando attiviamo questa straordinaria possibilità: possiamo essere più forti del male, possiamo essere liberi dal male. Ma è necessario sapere tuttavia che, se concediamo il perdono continuando a covare dentro di noi astio e rancore, esso non sarà efficace per noi: non ci libererà. C sta per confermare pubblicamente il proprio perdono. Nei gruppi terapeutici di Worthington i pazienti scrivono un certificato di perdono oppure una lettera di perdono a chi ha fatto loro del male, o semplicemente nel proprio diario, o ancora scrivono una poesia, o una canzone, o raccontano a un amico fidato di questo loro perdono. Questi sono tutti contratti di perdono che portano all’ultimo passo: H che sta per saper tener fede (nell’originale hold onto, da cui H) al proprio perdono. Questo è un altro passo difficile, perché i ricordi del torto subìto torneranno senz’altro a ripresentarsi. Perdonare non è cancellare; è piuttosto cambiare gli slogan mnemonici che un ricordo porta con sé. È importante capire che ricordare non significa non perdonare. Ma non indugiamo sui ricordi, alimentando propositi di vendetta, e non crogioliamoci in essi, non perdiamoci in sfibranti ruminazioni. Ricordiamoci di aver ormai perdonato, e, per concretizzare questa consapevolezza, rileggiamo i documenti che abbiamo scritto.

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