A Colmar, in Alsazia, morte e resurrezione

Nella terra di confine e di contesa tra Francia e Germania, la “piccola Venezia” cela un grande capolavoro che  rivela la religiosità della regione del Reno che vibra profondamente di fronte alla sofferenza dell’uomo e del Dio fatto uomo  

Colmar è un città alsaziana di 70mila abitanti, non lontana da Strasburgo, tra le alture dolci dei  Vosgi  e le propaggini della Foresta nera germanica.

Terra di confine e di contesa tra Francia e Germania, la “piccola Venezia”, come viene chiamata, si stende tra acque, ponti, piazze e vie tipiche di un centro commerciale che nel XVI secolo ha avuto il suo momento migliore. Perfettamente conservata è un gioiello che ha nel Museo di Unterlinden il suo focus.

L’antico convento dei monaci antoniani, destinati ai lebbrosi e agli appestati, è ancora al centro della città, chiuso nelle sue mura, ora diventato un museo, ospita – oltre ad opere del ‘900 come due splendidi Picasso – il celebre Polittico di Issenheim dipinto da Mathis Grunewald. Capolavoro indiscusso dell’arte della regione del Reno ed immagine esplicita della religiosità tedesca degli anni di Lutero.  Dipinto su entrambi i lati, destinati alla contemplazione ora ad ante chiuse ora ad ante aperte, è una summa del cammino spirituale del cristiano del tempo – e di sempre -, tra morte e resurrezione. Collocato al centro di una vasta sala, attira e confonde al tempo stesso.

Subito, ci appare il crocifisso più pauroso dell’arte occidentale. Un Cristo gigantesco, sfigurato, il corpo in decomposizione, le dita accartocciate e acuminate come spilli, il fondo cupissimo. Intorno, una Maddalena urlante, una Madonna terrea e svenuta, un san Giovanni desolato. Ed il Battista, apparizione extratemporale, ad indicare l’Agnello  di Dio morto per salvare il mondo.

Mentre in Vaticano Raffaello dipinge la suprema armonia delle Stanze e nella Sistina Michelangelo sulla volta ricrea la Genesi come potenza serena ed esaltazione della bellezza del corpo umano,  Mathis Grunewald – tra il 1512 e il 1516 –  compone il poema della morte. Fine inesorabile. Il cielo buio, colore verdastro all’orizzonte come dopo una tremenda tempesta, un calvario nudo e petroso, colori bassi, soffocati.  Il Cristo ha la bocca livida, il ventre incavato nello sforzo dell’ultimo respiro, ha appena gridato “Dio mio, perchè mi hai abbandonato?”. E accanto i fedelissimi sono come lui schiantati dal dolore, dal silenzio di Dio. Dio è morto.

La religiosità della regione del Reno è accorata, disperata, vibra profondamente di fronte alla sofferenza dell’uomo e del Dio fatto uomo come suggeriva Santa Brigida nelle sue Rivelazioni che ispirano il polittico.

La croce è spettacolo duro, straziante. Accanto a questa scena, su due ante alterali, Antonio abate resiste alle tentazioni diaboliche e Sebastiano al dolore fisico delle frecce. Sono i protettori dei malati di lebbra e di peste che qui venivano ad invocare aiuto, contemplando nel dolore del Messia  il loro dolore, anzi osservando come avesse sofferto come e più di loro.

La grande tavola, nella navata gotica dell’antico ospedale di san Antonio, è spettacolo di meditazione acuta, gli occhi non si staccano dal capo di Cristo fasciato da spine aguzze, dalle ferite putrefatte sul corpo, dal sangue che scorre sulla terra giallastra. Nessuna armonia, la bruttezza della morte. La predella, al di sotto, vede il Messia deposto tra Maria e Giovanni: al delirio dell’agonia subentra la calma della morte, dove “tutto  è compiuto”.

La spiritualità accesa della Devotio moderna in terra germanica, concentrata sul rapporto personale col Cristo, vede nella croce il massimo della morte del Messia nel massimo del dolore e lo dice, anzi lo grida come una apparizione spaventosa della sofferenza subita per amore. E’ il clima in cui nasce la sensibilità religiosa di un Lutero, prefigurata da altri  artisti come Bosch e Durer.

La scena della Crocifissione però non è tutto. Il grande polittico a più ante si apriva, durante alcune feste, e dal buio sgorgava la luce. E’ così che sul lato posteriore della Morte si alza  il canto della Resurrezione.

Quel Cristo piagato, irriconoscibile si è trasformato in un giovane biondo, sorridente, che galleggia  nel cielo trapunto di stelle entro un alone dorato, mostra  le palme aperte con le ferite dei chiodi e ci guarda pieno di luce. Dalla tomba spezzata dentro la grotta si alza la sindone bianca: si arriccia volando nel vento, trascolora in viola azzurro e rosso e si immerge nella luce. E’finito il tempo della morte, inizia quello della vita. Quell’uomo nudo e scorticato si è trasformato nell’immagine stessa della salute e della gioia.

Manifesto di speranza, la tavola vede nei dipinti accanto  la gloria di Maria, splendente col Bambino entro una natura  immacolata come lei, un mondo paradisiaco, surreale nelle tinte:   una esplosione della fantasia già“romantica” entro  il concerto luminoso degli angeli.

Tanto era stato terribile lo strazio, tanto è libera la gioia. Grunewald dipinge  così l’esperienza   cristiana, sospesa tra morte e resurrezione.  Ma – e sono le ultime ante del polittico – la battaglia continua: san Antonio è assalito dai più orrendi mostri diabolici, quasi sopraffatto da loro. In alto brilla la luce divina: la fede che conforta nel combattimento tra morte e vita.

Non si uscirebbe più da questa sala. E comunque, quando si è fuori dal convento-museo a respirare la brezza della primavera, ci si può sentire trafitti dalla passione infinita di quel Cristo uomo e dalla sua bellissima “bruttezza” e sollevati dallo stesso Cristo-Dio splendente dentro una atmosfera spirituale che non è più di questo mondo.

 

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