Cold War, inquietudine e speranza

Quello diretto da Pawel Pawilikowski è un film appassionante e sconvolgente, che unisce il thriller, il dramma, la Storia, il sentimento. Da non perdere.

Vincitore a Cannes 2018 e candidato a cinque premi EFA,  il film diretto da Pawel Pawilikowski – quello del meraviglioso Ida – è un lavoro sconvolgente. Per più motivi. In primo luogo, l’uso poetico, struggente e atmosferico  del bianco-e-nero, che delinea paesaggi dell’anima prima che della natura, inquadrature in primi e primissimi piani, stacchi rapidi tra una scena e l’altra, interni con luci più che caravaggesche alla Rembrandt, cioè vaghe e soffuse. Poi, il suo comporsi come un polittico di generi – thriller, dramma, storia, sentimento –, che si accompagnano con misura e naturalezza.

Dialoghi essenziali, silenzi lunghissimi, parlanti tuttavia come raramente al cinema. In più una componente spirituale – si direbbe religiosa – da non sottovalutare: insinuante e delicata, presente e lontana, aperta all’inizio del film con il protagonista Wiktor, musicista, che si inoltra con l’amante in una chiesa bizantina distrutta e rimane colpito da un lacerto di affresco: due grandi occhi (un angelo? Cristo?) che ritorneranno.

Ma c’è ancora un altro elemento, il più forte: l’amore. Wiktor organizza ricerche sul canto popolare della Polonia rurale e incontra, o meglio gli appare, la ragazza bionda Zula, personalità fortissima, ed è colpo di fulmine. Nasce una storia che dal 1949 arriverà al 1964 tra la Polonia, Parigi,  la Jugoslavia, ancora la Polonia negli anni del comunismo sovietico, dove il gruppo folcloristico è costretto alla propaganda di Stalin.

Wiktor fugge Parigi, ma Zula non lo segue, i due si rivedranno fuggevolmente ancora, finché lei andrà a Parigi, farà la cantante nei locali, poi fuggirà da lui ancora. Wiktor torna in Polonia, è incarcerato come spia, e finalmente i due si ritrovano: per sempre?

Nell’Europa in cambiamento, la speranza e la voglia di libertà accomunano la coppia fino alla volontà di un amore che non conosca più fughe da parte di nessuno dei due. Sullo sfondo della Storia si dipana la storia di un amore e di un anelito alla libertà che fa della speranza la protagonista sotterranea, il filo conduttore delle vicende lirico-drammatiche dei due, il punto a cui entrambi  convergono pur con esperienze personali diverse e talora contraddittorie (Zula sposa per convenienza un siciliano, lui ha varie storie amorose).

Poesia e passione, storia e politica, musica e arte. Il regista distende questi aspetti senza alcuna concessione alla retorica, in un linguaggio sobrio e misurato, calcolando la preziosità di ogni parola o silenzio o immagine. Tutto ciò dà unità al polittico, anche grazie ad una fotografia mai invasiva, calda e gelida a seconda dei momenti narrativi. Grande la prova dei due protagonisti, Tomasz Kot e Joanna Kulig, una bellezza alla Jeanne Moreau. Da non perdere.

 

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