Ciò che soltanto rimane

Un giorno, tra gli annunci di una rivista, mi colpì la foto di qualcuno che stava cercando l’anima gemella. Un signore di mezz’età, distinto, di una tristezza pesante e uno sguardo buono. Giorgio si descriveva geloso, possessivo, in cerca d’amore… Non rimasi indifferente a quegli occhi tristi. Così Maria cominciò il suo racconto. La conosco da quando frequentavamo l’università a Roma e la rividi dopo quasi trent’anni, nel corridoio di un ospedale di Firenze. Fu una gioia ritrovarla. Non più giovane ma sempre bella, dignitosamente elegante. In un bar vicino all’ospedale venni a conoscere la sua storia. Giorgio rispose al mio messaggio e dopo vari scambi per via elettronica e qualche telefonata capimmo che era arrivato il tempo di incontrarci. Visto che lui, per il suo lavoro, non poteva allontanarsi dal suo paesino in Toscana, mi chiese di raggiungerlo. Alla stazione non c’era molta gente e lo riconobbi prima ancora che lui mi intravedesse, imbacuccata come ero per il freddo gelido di quel mattino d’inverno. Era uscito dal lavoro e mi offrì di accompagnarmi a casa sua. Per il pranzo sarebbe passato a prendermi. Si rese conto del mio imbarazzo e mi offrì una pensione vicina a dove abitava. Lì ebbi tempo di riflettere e chiedermi se avevo fatto bene, in quale groviglio mi stavo cacciando, cosa volevo veramente. Il pensiero che si impose fu questo: sto facendo tutto questo per mettere una pietra su una triste storia? In quell’anonima pensione ebbi delle ore per esaminare tutto ciò che riguardava Giorgio, il ritaglio di giornale, appunti delle telefonate, email. Non so come, ma la vicinanza di quella persona ora mi rendeva tutto meno chiaro. Lui arrivò prima dell’ora che mi aveva detto. Era riuscito a chiedere il permesso per l’intero venerdì e poi ci sarebbero stati il sabato e la domenica. Il ristorante scelto non era lontano dalla pensione. Lasciai ordinare a lui. Aveva gusti semplici, come me. Per il vino fui io a decidere, e non era difficile dato che eravamo nel territorio del Chianti. Improvvisamente mi trovai senza parole e così pure Giorgio. Mi ero già resa conto, dalla concisione delle sue comunicazioni e dai silenzi durante le telefonate, che era un tipo di poche parole. Ma lo strano fu che la mia testa, così ricca di idee e fantasia, si trovò del tutto in bianco. Allora, a cosa brindiamo?. Alla coraggiosa iniziativa di Giorgio, risposi: Brindiamo al tuo paesino, che conservi sempre que-sta severa e misteriosa dignità!. Tu sei venuta fin qui soltanto per brindare al paesino?. Lo vidi e sentii ridere di gusto per la prima volta. Ritrovai la parola. Mentre cercavo frasi essenziali, Giorgio mi scrutava con serietà. La stessa della foto. Ero seduta alla sua destra, in una buona posizione per osservare il mio interlocutore. La sua camicia stirata. Chi gliel’avrà stirata? La sua giacca di stoffa buona, la cravatta intonata, i suoi baffi bianchi e orizzontali, se li sarà curati per me? La testa pelata, gli occhi verdi, le palpebre un po’ pesanti, occhiaie di chi lavora molto. Userà sempre gli occhiali che ha tirato fuori per sbirciare il menù? Vedi, Giorgio, mi sembra di non sapere più perché io sia venuta qui. Il fatto che tu esisti è come se scomponesse una storia che mi sono costruita io. Quel Giorgio che mi ha accompagnato finora abitava nella mia casa, nei miei sogni, nelle mie abitudini. Ed ora? Stai davanti a me…!. Mi interruppe divertito: Sì, stai davanti a me, e mi dimentico di te, pensando a te! Ante mí estás, sí.Mas me olvido de ti, pensando en ti. Conosci Juan Ramòn Jiménez? E tu, pensando a me, mi dimentichi?. È pesante lo spessore della solitudine che da anni si stratifica su di me. Forse la dimensione del sogno l’ho fatta diventare più sicura della realtà. La mia libertà resta così garantita. Eravamo già all’immancabile bistecca alla fiorentina e alla verdura cotta. Pensi che avrai occasione di gustare altri piatti di questo ristorante?, chiese Giorgio per non far ristagnare il dialogo. Dopo l’incidente che ha strappato da me marito e figlia, non so cosa significhi essere amati. Sono piena di incertezze. Finché ero in viaggio per venire qui non avevo certi pensieri, ma ora …. Giorgio decise che il caffè lo avremmo preso a casa sua.Mi aiutò a indossare il cappotto imbottito, chiedendomi se venivo dal Polo Nord. Non sembravo certo agghindata per un incontro galante. A casa sua tutto era in un ordine così asettico che sembrava disabitata. Tuttavia era accogliente. Il mio ospite mi indicò una poltrona che assieme ad un’altra formava un angolo di conversazione creato con gusto.Mi sedetti e cominciai a guardarmi attorno. Uno scaffale con dei libri creava una certa divisione tra il salottino e la parte dove c’era un grande tavolo. Quei libri mi sembrarono anonimi. Collezioni fatte con le offerte dei quotidiani, classici curati da chissà chi, enciclopedie comprate per agevolare i giovani rappresentanti al loro primo impiego. Non è quella la mia biblioteca – intervenne lui -. I libri miei li tengo nella camera da letto. Questi sono regali di qualcuno. Il caffè fu ottimo. Giorgio mi chiese se economicamente vivevo bene. Mi parlò del suo lavoro. Dei parenti dai quali si teneva alla larga. Il giorno dopo, quando venne a prendermi alla pensione, ero già pronta. Guidava bene, senza fretta. Gli occhiali da sole gli stavano bene. Gli dissi che, nonostante tutto, quell’inserzione nella rivista non la capivo. Anzi, cominciava a darmi fastidio. Eppure ci ha fatti incontrare!. Sì, ma che bisogno avevi di metterti così in mostra? Di gridare ai quattro venti che sei geloso, possessivo, romantico? Eri talmente disperato e assetato d’amore che non sapevi quello che scrivevi? Chi volevi accalappiare, qualche colomba solitaria?. Giorgio si tolse gli occhiali per guardarmi meglio o per farmi vedere che era stupito dal tono delle mie domande. Cara Maria, abbiamo storie diverse. La tua è lineare, pur con le scosse tragiche che ti hanno fatta rinchiudere in una torre d’avorio. La mia è molto movimentata. Ho scritto quell’annuncio quasi come un automa, durante le feste di Natale. Una solitudine feroce. Nel mio paesino sappiamo tutto di tutti. Pur stimato per il mio lavoro, non sono ben visto per il mio passato da sessantottino ribelle. La generazione degli attuali padri non mi ha mai perdonato un tentato attacco terroristico dove mi hanno implicato. La generazione dei figli non mi calcola. Faccio parte del passato. In carcere, ho scontato una colpa non mia. Uscito dalla prigione, mi sono ritrovato nel deserto, senza più amici né parenti. Mi sono impiegato in banca perché era il posto di mio padre, ma sono stanco di essere beneficiato. Cerco l’amore, non la beneficenza. Vorrei amare ed essere amato. Ai tempi del fattaccio, la compagna che mi aveva giurato amore eterno è svanita nel nulla. Sono passati gli anni. Non spero più. Spio la vita se è capace di sorprendermi. Le parole che la gente dice non le capisco. Ormai vivo in terra straniera e non so se esiste una patria. I telegiornali sono insopportabile fantascienza. Uso il televisore per i documentari che ricevo in regalo da chi sa che amo la natura. Ho visto passare la mia vita, non ho nessuno con cui vendicarmi. Tutti siamo innocenti, tutti vittime. Il volto di Giorgio si solcò di rughe di sofferenza e lo vidi guardare avanti, ma lontano. Temetti che si allontanasse anche da me. Sentivo di amare quel profilo sicuro mentre il paesaggio che lo inquadrava passava veloce. La mia compassione divenne presto commozione. Gli presi la mano destra. L’aprì con delicatezza. Ci fermammo in un parcheggio improvvisato. Per arrivare al centro del paesino bisognava camminare a piedi. Fu semplice e naturale prendere Giorgio sotto braccio. Sentii che era contento e grato. Fu una giornata di gioia, di foto. Cominciò così quello che oggi posso dire un grande amore. Ci sposammo nel giro di sei mesi. Poi una mattina mi avvertirono che era stato portato in ospedale per un improvviso malore. Lo raggiunsi in sala di rianimazione. Un’emorragia grave, purtroppo segnale di qualcos’altro.Mi prese la mano con delicatezza e mi ringraziò. Dopo qualche giorno si riprese al punto da essere trasferito nel reparto chirurgia. Avevo saputo che il tumore al colon aveva delle serie metastasi. Giorgio ed io ne parlammo apertamente. Quel pomeriggio senza qualità, l’intero ospedale divenne la nostra casa. Eravamo noi la casa. Sai, Maria, ho vissuto questi tre anni con te in una continua luna di miele. Tu hai investito tutto su di me. Hai lasciato il tuo lavoro, la tua casa, la tua città.Hai messo in secondo piano le amicizie, le tue letture, tutto il tuo mondo.Ho provato l’ineffabile gioia di essere unico e necessario a qualcuno.Non hai mai fatto paragoni con tuo marito, non hai mai parlato di figli. Così, giorno dopo giorno ho cominciato a guardare la realtà con occhi benevoli. Mi hai fatto rientrare nel giro dei parenti, anche gli amici sono tornati. Il dono prezioso che mi hai fatto è d’avermi fatto capire che io so amare ancora, che gli altri hanno bisogno di me. Ero distratta dall’acerbo dolore di sapere che Giorgio aveva i giorni contati.Ma ero davanti all’uomo che aveva saputo tirami fuori dal pozzo del passato. Fissandolo negli occhi, avrei voluto dirgli non so quali parole. Mi bastò guardarlo. Era un uomo felice. Maria con me stava piangendo. Aveva bisogno di piangere. Restai in silenzio. In certe occasioni le parole non si aggrappano al pensiero. Ricordi quando una volta ti dissi che non mi sarei mai sposata per non infossarmi nella tradizione borghese? Ricordi che ti dicevo che la nostra generazione sessantottina sarebbe stata quella che avrebbe illuminato passato e futuro? Che dovevamo cominciare a calcolare le epoche partendo dalla nostra? Quante cose insegna il tempo! Per fortuna annebbia e cancella tutte le parole che diciamo. Rimane soltanto l’aver amato. Si allontanò verso la fermata del bus. Sempre dignitosa e nobilmente libera. Quando la rividi ai funerali del marito la trovai ancor più nobile. L’amore di Giorgio era visibile in lei.

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