Ciò che più conta

Qualcosa di nordico o quantomeno di tedesco bisogna ammettere che forse c’è nel Dna di Antonio Aliffi. Alto un metro e ottanta, i suoi capelli e occhi chiari non suggerivano la classica fisionomia siciliana ma rimandavano a quei normanni che popolarono l’isola per ben due secoli. Lo conferma un episodio che lui stesso racconta, divertito : Una volta, davanti al duomo di Siracusa, mia città natale, una guida scambiandomi per un turista d’oltralpe mi chiese se volevo visitare quel famoso monumento, ex tempio di Minerva. Gli risposi, in dialetto siciliano, che quel tempio lo conoscevo fin troppo bene… cosa che lo orientò subito ad altri visitatori!. Da quel giorno sono passati molti anni; ora i capelli sono un po’ meno folti e biondi e la Sicilia rimane nel cuore come la terra della prima giovinezza, alla quale fare talora ritorno col pensiero o per qualche visita ai parenti. Dopo la laurea in giurisprudenza e una buona conoscenza della lingua tedesca, Antonio si è trovato ad insegnare in una scuola media della Valsugana, in quel di Trento, dove le circostanze avevano fatto sì che si trasferisse. Aveva infatti nel frattempo conosciuto i Focolari e deciso per una scelta che avrebbe impegnato tutta la sua vita come membro a vita comune. Tre anni intensi che l’hanno maturato anche professionalmente, seguiti da un periodo passato a Zurigo, Colonia e poi, per qualche mese, a Loppiano, nella allora nascente cittadella internazionale del movimento. Quando arrivai a Loppiano tutti pensavano che li burlassi dicendo che ero siciliano, ma bastò che aprissi la bocca perché gli amici, soprattutto italiani, non avanzassero più delle riserve sulla mia provenienza; altroché se ero meridionale! In compenso, la buona conoscenza del tedesco mi rese intermediario in varie circostanze, visto che le molte nazionalità presenti nella cittadella erano causa di non pochi e spassosi fraintesi!. Dopo Loppiano è per Antonio la volta di Vienna dove il soggiorno si protrarrà per circa trent’anni. Siamo negli anni Settanta; la caduta del muro di Berlino era ancora lontana e forse inimmaginabile allora e l’Austria costituiva come la testa di ponte verso l’est europeo, l’allora oltre cortina. Germania orientale, Cecoslovacchia, Ungheria: tutti paesi dove il regime totalitario marxista teneva sotto ferreo controllo ogni rapporto, specie se con persone provenienti dagli altri paesi dell’Europa occidentale. Eppure, come ormai è noto, la vita dell’ideale dell’unità da anni si era silenziosamente fatta strada anche in quei paesi e molti amici là residenti avevano sete del Vangelo ancor più che della libertà. Non si poteva parlare ma si poteva, si doveva vivere, trovando mille modi per comunicarsi le esperienze e portare avanti pacificamente ma cocciutamente e senza soste il messaggio di Gesù. Nell’anima di Antonio affiorano tanti ricordi, troppi forse e tutti importanti: me ne racconta qualcuno: Praga, Bratislava, Brno erano le mete preferite dei nostri primi viaggi turistici, da Vienna in Cecoslovacchia. Un turismo un po’ speciale perché ostentando ammirazione per i panorami e le bellezze artistiche, ci incontravamo in realtà con famiglie amiche o con giovani, magari conosciuti precedentemente in circostanze varie e ovviamente non si parlava d’arte. Ricordo ancora l’entusiasmo con il quale alcuni di loro, nel ’68, ci parlavano della Primavera di Praga e della libertà totale che avrebbero presto acquistata. Fu l’occasione per evidenziare come da noi, in occidente, molti erano caduti schiavi del materialismo e dei soldi e che, nonostante la libertà politica sia un bene, occorreva stare attenti a non perdere quella più vera e profonda: la libertà del cuore. Fummo capiti e molti, da allora, incominciarono a concretizzare seriamente l’ideale evangelico loro comunicato ed a costituire, di conseguenza, le basi di una comunità cristiana vivissima che poi due focolarine, arrivate a Bratislava per studiare lo slovacco ebbero l’opportunità di seguire nel suo sviluppo. I ricordi si intrecciano, vivissimi, e si sente che gli episodi vissuti in quegli anni hanno segnato la vita di Antonio. Me ne racconta qualche altro: Con Bruno – era verso la fine di agosto del ’69 – ci siamo recati nel piccolo centro di Sumeg, in Ungheria per cercare di metterci in contatto con la famiglia del medico Zoldi che ci era stata segnalata come cristiana e simpatizzante del Movimento, ma della quale conoscevamo solo il nome. Per scovare il suo indirizzo ci recammo così all’ufficio postale dove consultammo senza risultato una guida telefonica. Non ci sembrava prudente chiedere informazioni agli impiegati e chiedemmo ad una signora incontrata per strada, informazioni su qualche medico dei dintorni, fingendo di averne urgente bisogno. Riuscimmo così quasi miracolosamente ad avere l’indirizzo degli Zoldi. Pal e la moglie Ilona, assieme ai cinque figli, ci accolsero gentilmente offrendoci del tè, ma si sentiva in loro una certa diffidenza anche se portavamo i saluti di Szeged, un’amica comune. Allora in Ungheria ognuno poteva essere una spia per l’altro. Solo più tardi, ascoltando con loro una cassetta di canzoni del Genrosso, si rassicurarono sulla nostra identità e l’atmosfera cambiò completamente. Non ci avrebbero più voluto lasciar partire tanta era la sete di conoscere la nostra esperienza. Diventammo presto amici e ci ritrovammo l’anno dopo, in vacanza sul lago Balaton: la nostra prima Mariapoli in terra ungherese, con la presenza di sole quindici persone ma tutte decise a portare ovunque quella vita di amore scambievole lì sperimentata. Esperienze, le più varie, affiorano nella mente di Antonio, che continua a raccontare delle tante volte nelle quali, con gli altri compagni di focolare si è recato, sul vecchio maggiolino in loro dotazione, da Vienna a Budapest, portando materiale compromettente per quei tempi: cassette registrate o altro che parlavano esplicitamente dell’ideale dell’unità. Una trovata li ha aiutati: le cassette erano messe innocentemente bene in vista, con altre di musica, in sacchetti di plastica sul sedile posteriore della macchina, assieme a panini e frutta… E ci è andata sempre bene! Questo fino agli avvenimenti epocali dell’89. In estate, ai funerali uffi- ciali di Imre Nagy, l’antico dissidente dell’allora intransigente regime stalinista, giustiziato senza processo due anni dopo l’insurrezione antisovietica del ’56, centomila persone possono finalmente cantare le parole dell’inno nazionale che è anche un canto religioso: Dio salvi l’Ungheria. Il 19 novembre sono in ottomila ad assistere nello stadio di Budapest allo spettacolo del Genrosso: si ha l’impressione che, dopo decenni di silenzio, si possa ora davvero gridare Dio. Proprio come Chiara Lubich aveva pronosticato nei lunghi anni della guerra fredda: Hanno trasformato le chiese in musei: noi trasformeremo i teatri in chiese!. In Antonio la commozione per il profondo coinvolgimento con la realtà di quei paesi dell’est europeo in quegli anni è intensa : un contributo di vita condivisa con i compagni di focolare e poi con tutti quelli d’oltre cortina, giorno dopo giorno, alla luce dell’ideale evangelico dell’unità. Poi… un giro di caleidoscopio e le circostanze cambiano. Dopo trent’anni di lavoro e di impegni quasi senza tregua, di viaggi sul maggiolino anche di dieci ore consecutive, ecco lo stop. Le forze non sono più quelle di prima: circostanze varie lo indirizzano per accertamenti clinici verso un ospedale italiano, ed è l’addio all’Austria. Contemporaneamente una remota ferita al ginocchio, rimasta sopita per tanti anni, incomincia a tormentarlo e, quasi non bastasse, un serio problema ad una cornea esige interminabili soste al buio anche di giorno. Antonio, che ora vive a Loppiano, capisce che Dio lo chiama ad un rapporto personale diverso da quello avuto con lui finora, ma non meno coinvolgente. Mi legge qualche riga di un suo diario : Quando cammini verso la vetta e davanti a te sta un ghiacciaio o una parete di roccia, capisci che devi concentrarti su quel passaggio come se fosse l’unica cosa da fare, col massimo sforzo nel presente. Sei solo, anche se in cordata… Ogni distrazione ti può costare la vita o mettere a repentaglio quella degli altri. E aggiunge: Mi pare assomigli a ciò che mi è richiesto ora. Dapprima mi hanno assalito i pensieri più vari, anche tentazioni di scoraggiamento, ma in un momento di dolore fisico lancinante, che mi aveva quasi paralizzato spiritualmente, ho capito che forse Dio stava rinsaldando le fondamenta dell’edificio della mia vita chiedendomi di credere al suo amore, di fidarmi di Lui. Sento che è giunto il tempo di dare un altro tipo di contributo per la realizzazione di quell’ideale di fraternità universale per il quale un giorno avevo deciso di dare tutto me stesso. Più che evidente: le forze sono diminuite, ma la donazione giornaliera, concretizzata in mille atti di attenzione e di servizio al prossimo, è raddoppiata di intensità. È il mio oggi. Se riesco ad accettarmi così come sono, a comunicare il positivo, ad essere per tutti una presenza di amore, forse faccio la cosa più importante, quella che veramente conta. Il viso di Antonio si illumina ed il suo sorriso dice, più delle parole, quanto ciò sia vero.

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