Chiamiamola semplicemente vita

La vita alle volte ci mette al tappeto. Sferra un tale colpo che siamo tentati di non rialzarci più. Alziamo il braccio in segno di resa. Cos’altro ci può ancora capitare?

La vita alle volte ci mette al tappeto. Sferra un tale colpo che siamo tentati di non rialzarci più. Alziamo il braccio in segno di resa. Cos’altro ci può ancora capitare?

Può essere la perdita improvvisa del proprio lavoro, un amore finito troppo presto, un insuccesso scolastico, la vana ricerca di un lavoro, trovarsi a ricominciare tutto da capo.

Allora l’impotenza ci prende alla gola e ci paralizza. Il mondo intorno a noi non ci aiuta: che penseranno gli altri di noi? Il giudizio ci pesa come un macigno.

Ci affrettiamo a nascondere ogni debolezza. Un figlio che va male a scuola diventa un problema familiare intorno a cui fare calare il silenzio.

Una disoccupazione improvvisa diventa una questione privata. La separazione di un figlio o di un nipote una sofferenza di cui evitare di parlare con gli amici. La depressione del marito o della moglie un terribile segreto.

Eppure, se nessuna caduta è di per sé auspicabile né salutare, imparare a gestire gli insuccessi è davvero cruciale. A partire dal modo in cui li nominiamo… dal modo in cui ne parliamo.

Fin da piccoli dovremmo insegnare ai nostri figli che correndo si cade e magari ci si fa male, che si può prendere un brutto voto a scuola e fare meglio la volta successiva, che non sempre le nostre virtù ci vengono riconosciute, che crescendo incontriamo la cattiveria, il sopruso e l’ingiustizia. Fin da piccoli dovremmo imparare a chiamare questi inciampi, con una parola semplice e bellissima: vita. È la vita.

Vivendo ci facciamo male, vivendo ci rialziamo, vivendo sbagliamo strada, vivendo diventiamo più umani. Non potrei togliere dalla mia vita questi passaggi. La passione per l’insegnamento è nata da una bocciatura ingiusta in quarta ginnasio, la perseveranza nel lavoro da un concorso andato storto, la coscienza della fragilità umana dopo una gravidanza non andata a buon fine, la coscienza civile dal contatto con le povertà. L’esperienza è esattamente questa possibilità di uscire dal proprio limite, da una sconfitta, da un confine. E di uscirne più umani.

Ogni tanto incontriamo persone che sono state capaci di lasciarsi attraversare dal dolore, senza soccombere e senza chiudersi; la vita le ha rese più morbide, più indulgenti con sé stesse e con gli altri, più empatiche. Invecchiando hanno perso molte certezze e sicurezze giovanili. È la vita, cari amici. Ognuno ha la sua, ognuno ha un proprio destino, ma c’è una comunanza legata alla comune fragilità che possiamo condividere.

Potessimo guardarci tutti con più tenerezza, con quell’indulgenza di chi si è appena rialzato e sa che significa cadere in basso. Potessimo evitare almeno di appoggiare sulle spalle dei fratelli il fardello del nostro giudizio. Ciascuno di noi “è” il diverso, il disabile, il separato, il povero, il minore. E chi non lo è, scagli la prima pietra.

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