Che fine fanno gli immigrati?

A sette chilometri dal capoluogo pugliese, 1500 richiedenti asilo vivono tra l’indifferenza e il silenzio dei media
immigrati

Qualche giorno fa, con alcuni amici, ho incontrato diversi giovani immigrati a Bari, residenti nel campo del centro di accoglienza CARA, nei pressi di Palese, a pochi chilometri dal centro urbano. Belle facce, sguardi puliti, occhi sinceri. All’inizio spaventati quanto noi dal nostro incontro. Loro intimoriti dall’eventuale ritorsione sulla loro condizione di quanto ci avrebbero raccontato, noi per il bombardamento mediatico negativo che suscita inevitabilmente pregiudizi e cattivi stereotipi nei loro riguardi. Ci siamo chiesti se forse non diventino violenti quando si negano loro il rispetto dei diritti umani e la dignità che meritano come persone.

 

Un uomo di 35 anni del Bangladesh, immigrato in Libia per povertà ed arrivato a Bari da cinque mesi, è in attesa di sapere se accetteranno la sua richiesta di asilo politico. Altri africani del Ghana, dicono solo che hanno paura di parlare e hanno con sé una borsa della spesa a rotelle con la quale ci spiegano, stanno andando a cercare roba da mangiare e vestiti nei bidoni della spazzatura. Parlano bene l’inglese. A loro, poco dopo, si aggiungono un iraniano con tre amici e un ragazzo della Costa D’Avorio. Questi si fidano di noi e si aprono di più, descrivendoci la vita nel campo. «Un posto orribile – dicono – sporco, con servizi igienici mal funzionanti, cibo scarso e di cattivo gusto. Il paracetamolo è l’unica medicina per ogni malattia». Altri immigrati africani affermano di avere abiti insufficienti : una maglietta, un paio di pantaloni e un paio di scarpe che devono bastare per sei mesi. A detta di tutti loro, ricevono solo una piccola confezione di shampoo per sei mesi, che puntualmente in un mese al massimo è già finito. Non hanno abiti per l’inverno. Qualcuno ci mostra che ha due paia di pantaloni addosso, per paura del freddo.

 

In questo momento sono liberi di entrare e uscire dal centro. Terminati i sei mesi di ospitalità previsti dalla legge, se non otterranno il permesso di soggiorno, hanno 15 giorni di tempo per cercare un avvocato e farsi difendere in un eventuale ricorso. Ma nessuno ha i soldi per farlo. Trascorse queste due settimane hanno ancora tre mesi per trovare un lavoro e una casa dove dormire perché non possono più restare nel centro di accoglienza. Anche se di fatto molti vi ritornano perché non riescono a sopravvivere da soli. C’è chi risiede nel centro da un anno, ma c’è chi vi abita anche da tre.

 

Domandano «come si fa a vivere senza cibo, senza un posto dove dormire, senza soldi e senza lavoro?». E aggiungono che in queste condizioni è facile accettare le proposte dalla criminalità del posto. Chiediamo se le organizzazioni di volontariato vanno a visitarli nel campo, per rispondere alle loro necessità. E qui cominciano le discordanze: gli immigrati asseriscono con determinazione che a nessuno è consentito entrare, se non alla polizia e ai militari. L’assessore Fabio e altre associazioni invece smentiscono seccamente e testimoniano una loro presenza. Agli organi di stampa il decreto Maroni continua a negare l’accesso al campo, al punto che qualche mese fa, in occasione dei disordini civili causati dalla loro protesta, i giornalisti hanno manifestato proprio davanti ai cancelli del centro Cara. Quello che stupisce maggiormente, è che a soli sette chilometri dalla città di Bari, ci siano delle persone, con pari dignità della nostra e con diritti disattesi, abbandonati ad un destino sconosciuto, lasciati soli dalle istituzioni e dai civili, senza risposte, senza misure e soluzioni.

 

Ci raccontano poi che coloro che non ricevono il permesso di soggiorno, cercano di raggiungere il nord Europa nella speranza di rifarsi una vita, ma il più delle volte vengono arrestati come clandestini e quindi rimpatriati. Perché non aiutare questa gente sofferente a ricominciare a vivere? «Mancano le risorse economiche», hanno spesso risposto le istituzioni. Perché allora, non creare un sistema che metta in rete le associazioni di volontariato, le cooperative sociali e tutti gli organismi sociali ed economici che vogliono lavorare per questo scopo? Guardandoli allontanarsi penso che tra queste persone, ci sarei potuta essere anch’io, e che invece, per uno strano scherzo del destino non sono in queste difficoltà. Credo anche che quello che sono oggi costruisce e prepara quello che l’umanità sarà domani.

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