Cervello e diritto

Siamo liberi? Le neuroscienze lo mettono in dubbio. Ma allora chi è colpevole? Vanno riscritte le leggi alla base della nostra convivenza? Dialogo in redazione.
Cervello umano.

Negli ultimi anni, una parte crescente degli scienziati, sulla base degli studi sul cervello, ritiene che l’uomo non sia veramente libero, per cui andrebbero cambiate le basi del diritto attuale basato sulla responsabilità colpevole. Secondo le ricerche di Benjamin Libet, infatti, ci illudiamo di fare scelte coscienti, ma in realtà ogni volta, pochi millisecondi prima, alcune aree del cervello prendono la decisione a livello inconscio. Per cui, non essendo responsabili delle nostre azioni, non dovremmo essere condannati dai tribunali. Intanto a Trieste una sentenza ha ridotto di un terzo la pena di un omicida sulla base dei dati provenienti dall’esame neuropsicologico, dall’imaging funzionale del suo cervello e dalla genetica molecolare. Abbiamo rivolto alcune domande ad esperti di diverse discipline.

 

Siamo liberi e responsabili o no?

 

Chiara Rivoiro (neurologa – Torino): «Grazie alle neuroimmagini, tutti i giorni escono nuove scoperte che aumentano il fascino degli studi sul cervello. Bisogna però sottolineare che annunci come quelli di Libet non vanno presi acriticamente: è certo possibile che i nostri neuroni funzionino sulla base di “tracce” formatesi fin da quando eravamo nella pancia della mamma, per cui, in determinate situazioni, per la formazione del pensiero esistono collegamenti nel cervello che scatenano reazioni predeterminate. Ma la libertà dell’individuo è poi quella di adattare queste tracce al contesto e all’ambiente in cui si trova. E non solo a livello cerebrale: secondo alcuni studiosi l’impatto dell’ambiente sull’organismo prevale sulla predisposizione genetica. Sono la storia e il contatto sociale che determinano la responsabilità dell’individuo».

 

Annette Gerlach (psichiatra forense – Heidelberg): «Sono d’accordo. Alcune ricerche dimostrano che la struttura del cervello si modifica quando si fa del male per tanto tempo. Alla fine si diventa condizionati, invece con una terapia che aiuta a “pensare bene” si può abituare a comportarsi meglio. Chi beve sempre alcool diventa alcolizzato. Chi legge cose belle si modifica in meglio. Si dovrebbe far sperimentare ai giovani il bello. Ci lamentiamo dell’aggressività, ma cosa facciamo oltre a mettere in carcere? Il nostro compito è aiutare a cambiare comportamento».

 

Benedetta Izzi (ricercatrice in epigenetica – Bruxelles): «La mia disciplina studia l’influenza dei fattori ambientali sull’espressione dei geni. Non credo che l’influenza genetica sia così rilevante in un caso di omicidio. Bisogna essere prudenti. Studi di questo genere potrebbero solo dirci se c’è un maggiore o minore rischio che possa accadere una certa cosa. Niente altro. A chi vorrebbe screening genetici generalizzati, per eliminare dalla società chi ha il gene dell’inclinazione criminale, rispondo che valutazioni di questo tipo hanno senso solo se frutto di studi su grandi popolazioni, come avviene per quanto riguarda patologie come i tumori o le malattie cardiovascolari. Quindi i tribunali possono continuare a considerare la responsabilità personale come hanno fatto finora».

 

Adriana Stacca (docente diritto penale – Sassari): «Concordo con questa affermazione che valuta accertamenti di tipo genetico solo in ordine al rischio. Rimane riservata al diritto la valutazione finale e integrale della persona, ben diversa dalla valutazione parziale affidata alla scienza. Ridurre la persona alle funzioni del suo cervello significherebbe infatti frammentarla tutte le volte in cui è chiamata a scegliere. E questo impoverirebbe anche il diritto, disciplina che attiene all’insieme delle regole che riguardano le relazioni all’interno della nostra convivenza sociale».

 

Catherine Belzung (neurobiologa – Parigi): «Sono d’accordo anch’io. È la persona che decide, non il suo cervello o i suoi geni. Anche se questi dati scientifici esistono, è sbagliata l’interpretazione. Gli esperimenti di Libet sembrano indicare che c’è attività cerebrale prima della decisione, ma un modo diverso di interpretarli è che, nel momento in cui prendo coscienza della propensione del cervello ad un comportamento violento, posso decidere di inibirla. Anche se la parte inconscia del cervello mi farebbe agire in un certo modo, sono libero perché se voglio posso interrompere quell’azione».

 

Elisabeth Reichel (psichiatra forense – Vienna): «Sappiamo che la decisione cosciente è solo la punta dell’iceberg, mentre tutta la preparazione dell’azione avviene nell’inconscio. Non si sa cos’è il conscio, come agisce e come controlla. Alcuni dicono che non c’è colpa perché non c’è libero arbitrio, altri che bisogna distinguere. Secondo me la legge dovrebbe abbandonare la dicotomia buono/cattivo, bianco/nero: sono “responsabile” di quello che faccio, ma sapendo che dentro di me succedono cose di cui non ho coscienza. Per questo concordo con la collega Gerlach: c’è una responsabilità individuale, ma anche una collettiva, sociale. Il nostro inconscio è come una eredità ricevuta da tutta l’umanità, con “piste” cerebrali che si evolvono. Come giudice dovrei aiutare la persona a diventare più responsabile delle proprie azioni, facendo esperienze diverse, terapie ecc. Dobbiamo distinguere tra colpa e responsabilità. Basta con la punizione e nient’altro, serve aiuto per riprendere la strada positiva. È un approccio diverso che auspico».

 

Stacca: «Per il diritto, però, quando si commette un reato, la valutazione della responsabilità è proprio in termini di colpevolezza o meno. È nel momento in cui devo decidere la sanzione da applicare, che terrò conto dei fattori che possono aver influenzato il comportamento della persona, fattori ambientali, i suoi precedenti, la sua vita, complessivamente quella che viene definita la sua capacità a delinquere. Ne terrò conto, ma senza eliminare la responsabilità penale personale».

 

Come possiamo essere sia liberi che condizionati?

 

Reichel: «Vorrei portare l’esempio di Massimiliano Kolbe, ad Auschwitz: nel momento in cui sono tutti in piedi e il comandante dice “tu” ad un detenuto che cade in ginocchio piangendo, Kolbe si fa avanti e si offre di morire al suo posto. Questa decisione è stata così veloce, che uno si chiede come sia stato possibile, servirebbero ore o giorni per una decisione di questa portata. Se è riuscito a decidere così velocemente è solo perché ogni decisione è frutto di decisioni precedenti. Kolbe ha detto “sì” perché aveva già detto tanti “sì” in precedenza nella sua vita. Era allenato a donarsi. Non è tanto questione di decisione in quell’istante, ma di tutta la vita».

 

Stacca: «È fondamentale la lettura a tutto campo della persona. Questo concentrarsi sulle neuroscienze riflette un po’ la concezione che guarda al singolo nelle sue componenti, cervello compreso, dimenticando che la responsabilità si costruisce considerando anche le relazioni che costruiamo nel mondo che ci circonda, la società in cui viviamo, la comunità in cui siamo inseriti. Altrimenti, in questa concezione individualista, nessuno è responsabile di niente e di nessuno. Tra l’altro, la prospettiva che il diritto non perde di vista è quella della possibilità del recupero. Se guardo solo a fattori di tipo genetico che determinano la personalità, verrebbe da scoraggiarsi, e invece sappiamo che attivando circuiti diversi, positivi, è possibile che la persona possa essere recuperata. I risultati scientifici sono sicuramente utili nei casi in cui c’è il dubbio di una possibile infermità mentale, aiutando il giudice a formulare il suo giudizio; ma poi è lui che deve decidere. Tra l’altro la valutazione è limitata al solo momento della commissione del reato, non abbraccia lo stato di salute globale della persona. Anche in presenza di una patologia, infatti, ci può essere nella realizzazione del fatto capacità di intendere e volere».

 

I media, secondo voi, come si comportano su questi argomenti?

 

Gerlach: «Hanno una grande responsabilità; in questi ultimi anni i comportamenti violenti sono aumentati di dieci volte nella percezione della gente, che ha sempre più paura, anche se in realtà non è così. Questo rende più difficile reintegrare nella società chi sbaglia. Sarebbe bello pubblicare, almeno una volta l’anno, un giornale con solo belle notizie, come ha fatto a Natale scorso il vescovo di Berlino su un grande quotidiano».

 

Reichel: «Anche il significato di queste ricerche neurologiche andrebbe spiegato bene, perché se c’è un titolo “Non sei tu che decidi, ma il tuo cervello”, si fa cattiva informazione. Non dobbiamo aver paura delle scienze naturali, né metterci in difesa: la verità si spiega da sé stessa. Se siamo convinti che la verità vive dentro l’uomo, per vie magari contorte alla fine verrà alla luce. Non dobbiamo difenderci, ma conoscere dialogando tra discipline».

 

Belzung: «Nella comunicazione dobbiamo essere corretti, come giornalisti e come scienziati. Un esempio personale: quindici anni fa ho partecipato allo studio dell’influenza di un gene nel comportamento dei topi. Abbiamo scritto un articolo per Nature, la più famosa rivista scientifica. Ma il titolo era: “Topi senza questo gene sono molto violenti”. Non lo condividevo perché non era esattamente quello che avevamo osservato: la realtà era molto più sfumata e complicata. Non hanno voluto cambiare il titolo e io non ho firmato l’articolo. Per noi ricercatori, titoli sensazionali su grandi riviste sono un modo per fare carriera, ma un maggiore senso morale non ci farebbe male».

 

Gerlach: «Due scienziati hanno controllato per decenni 600 bambini, la metà provenienti da ambienti poveri e violenti, gli altri benestanti. Le verifiche svolte ogni cinque anni hanno confermato che i fattori che aiutavano i primi ad uscire dalla loro condizione di degrado erano soprattutto i rapporti. Compreso l’amore per chi trovava una ragazza. È molto importante rinforzare nella società questi fattori».

 

Reichel: «Abbiamo parlato di influenze genetiche, ambientali, sociali: l’individuo è certamente frutto di tutto questo, ma ricordiamoci che non è solo questo».

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