Casa dolce casa ( tra shopping e carriera)

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Lui sta tutto il giorno in ufficio, lei ama girare i negozi. Lui guadagna, lei spende. Lui in mano ha sempre il telefonino, lei le buste con gli acquisti. Provate a immaginare cosa succederebbe se questi due tizi fossero marito e moglie. Che stress! E magari lo sono davvero. Che tragedia! I tipi di cui abbiamo appena parlato (speriamo dunque che almeno non facciano coppia) non esistono nella fantasia ma nella realtà. Sembra infatti che fra le nuove dipendenze la carriera e lo shopping si stiano sempre più facendo strada. Stili di vita che la vita, a dire il vero, la rovinano a molti. Perché non è raro il caso in cui a 50 anni un uomo si ritrova a dover ricominciare daccapo perché, cambiati i vertici dell’azienda, di lui non c’è più bisogno e non importa niente a nessuno se lui all’azienda stessa aveva sacrificato tutto: affetti, famiglia, tempo, salute… E che dire di quelle donne che hanno gli armadi pieni e le mani vuote, non solo o non tanto di soldi ma di tutto ciò che può dare senso alla vita? Beni durevoli che non passano mai di moda e che tutti in fondo desideriamo possedere, anzi, a dire il vero possederemmo già. L’età più a rischio, dicono gli esperti, sarebbe quella fra i trenta e i quarant’anni, quando nel pieno delle forze e non più spensierati, si costruisce il proprio futuro investendo le energie nei campi che si intravedono promettere maggiori risultati. Alcuni dati. Gli italiani maschi compresi in questa fascia d’età e che risultano titolari di aziende individuali sono 850 mila, un numero pari al 25 per cento del totale. Il 38 per cento delle nuove aziende è avviato ogni anno da ben 93.421 imprenditori trentenni che lavorano in media 9,8 ore al giorno durante la settimana (con punte di 10 ore e mezza a Milano) e 6 durante i week-end. Ma i dati, forniti dalla Camera di commercio di Milano che ha condotto un’indagine interpellando 400 giovani in carriera del capoluogo lombardo per poi confrontarli con i loro colleghi coetanei di altre città italiane, non finiscono qui. Compagno di lavoro insostituibile non può che essere proprio lui, il signor telefonino che ha istituito una nuova schiavitù: la reperibilità a tutte le ore del giorno e della notte. Il primato, come è facile aspettarsi per la nota virtù della laboriosità ambrosiana va appunto ai milanesi, il 14,4 per cento dei quali lo usa dalle 30 alle 50 volte al giorno. Frequenza questa raggiunta dal 10, 5 per cento dei romani mentre a Treviso e Napoli prevale l’abitudine di mettersi al cellulare dalle 10 alle 30 volte al giorno. All’ultimo posto troviamo Bari dove il 70 per cento dei giovani imprenditori ricorre al telefonino in meno di dieci occasioni. Un elemento accomuna comunque tutti questi signori, dal nord al sud: lo stress. E fin qui nessuna meraviglia. Quello che forse non tutti si aspetterebbero di sapere è che i manager di questa fascia di età – di cui il 45,7 per cento è sposato, il 26,8 per cento single, il 23,2 per cento fidanzato e il 4,3 per cento divorziato -, nella scala dei valori ha messo il successo all’ultimo posto (ma sarà vero?), con appena l’1 per cento. Al primo posto viene infatti la famiglia col 76,8 per cento, seguita da salute (50,5 per cento), amicizia (38,1 per cento), realizzazione professionale (34 per cento). Aiutare il prossimo è importante per l’11,3 per cento degli intervistati, mentre a pari merito col 5,7 per cento troviamo la religione e il guadagno e con il 4,1 per cento il senso civico. Ed anche nell’uso del tempo libero la famiglia è saldamente al primo posto preferita dal 66,5 per cento, seguita dagli amici col 53,1 per cento, dal fitness col 38,1 per cento e poi da attività culturali, viaggi, divertimenti… E veniamo ad un’abitudine che è più caratteristica del gentil sesso anche se non in maniera esclusiva. Quella cioè dello shopping. Forse perché in genere è stata la donna che in casa si è occupata di andare dal fruttivendolo, dal macellaio, dal panettiere, di comprare da vestire ai propri figli ecc…, la tendenza agli eccessi sembra essere un rischio più a portata di mano per lei che non per lui. Un’attrazione irresistibile, quella di entrare in un negozio e uscirne con uno o anche molti pacchi. E magari dello stesso genere: vestiario per lo più o scarpe. Se poi chiedete a queste donne che uso ne faranno non è detto che vi sappiano rispondere. In genere infatti, in questi casi, la spinta all’acquisto è più impulsiva che ragionata. Così può succedere che trovate nei loro armadi capi ancora incellofanati, scatole ancora chiuse, vestiti in bella mostra che magari la ricca signora non ricordava più di avere.Pensate che esiste addirittura un mestiere apposito: la personal shopper, una persona che per lavoro consiglia gli altri sugli acquisti. Una professione che può rendere fino a 450 euro al giorno. Naturalmente chi la esercita deve possedere doti da maratoneta: i suoi clienti potrebbero infatti voler andare in giro tutta la giornata senza sosta finché non abbiano esaurito tutti i desideri. In alcuni casi quello dello shopping può diventare una vera e propria malattia tanto da essere stata annoverata, da un anno a questa parte, fra le dipendenze patologiche indicate nel vademecum di psichiatria. Per scoprire se abbiamo a che fare con una fase passeggera, una mania temporanea o una seria patologia, alcuni psichiatri hanno formulato un test di tredici domande. In base alle risposte si può misurare quantitativamente il livello di dipendenza da shopping che, come tanti altri, può essere un modo di far fronte allo stress della vita quotidiana. Ma si tratta solo di una prima valutazione a cui devono seguire altre fatte in maniera seria e scientifica. A Bolzano esiste per questo un centro specifico, la Siipac (Società italiana di intervento sulle patologie compulsive – gioco d’azzardo patologico, shopping ed internet compulsivo) cui, purtroppo, non manca il da fare perché sono tante le persone che non riescono a “fermarsi” più, per una o un’altra dipendenza. Novelle “droghe”, sintomi di disagi relazionali profondi, con le quali inutilmente si cerca di colmare vuoti esistenti nella nostra società. Ma prima di arrivare a livelli patologici qualcosa si può fare. Ad esempio, suggeriscono quelli del Siipac, un valido aiuto consiste nell’inventario dei beni che si posseggono. Farebbe infatti una certa impressione anche ai più ostinati accorgersi del numero esagerato di capi fotocopia disseminati nei vari armadi. Senza dire poi che sbarazzarsi del superfluo è la cosa più semplice di questo mondo: basta darla a chi, nei propri armadi, invece, ha tanto spazio vuoto. E magari può essere il nostro vicino di casa o quell’istituto davanti al quale distrattamente parcheggiamo tutti i giorni la macchina e che i beni anziché accumularli li fa circolare. Se prevenire è meglio che curare questa malattia possiamo dunque ben evitarcela… Stando attenti ai primi sintomi. Chiedersi se quello che vogliamo acquistare ci è veramente utile può essere un primo antidoto. Ma sembra che si stia evidenziando un’altra tendenza che potrebbe anche essere il risultato delle prime due. Già perché a lungo andare sia lui, il manager, sia lei, la compratrice, un bisogno prima o poi lo sentiranno: quello della casa, dolce casa. Sì, proprio quelle quattro insostituibili pareti domestiche all’interno delle quali la vita può essere diversa che fuori. Perché a casa non serve dimostrare che sei il migliore, il più bravo, quello che può sfondare. Perché a casa il modello dell’efficienza allo stato puro può anche venir messo in cantina. Perché a casa non devi dimostrare di avere ma di essere. Perché… Metteteci dentro tutte le motivazioni. Ce ne sono davvero tante! E poi fateci sapere se la “casa” (con tutto quello che il termine comprende) non è la cura migliore contro gli eccessi di cui abbiamo parlato e non solo. E se non lo è già, vi auguriamo che lo diventi.

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