È bello vivere liberi

Il 3 gennaio è stato il quindicesimo anniversario della morte di Ondina Peteani, la prima staffetta partigiana italiana. Arruolatasi giovanissima tra i partigiani, conobbe l’internamento ad Auschwitz. In tempo di pace continuò a perseguire gli ideali della Resistenza, contro ogni ingiustizia. La biografia scritta da Anna Di Gianantonio

Ondina Peteani era nata a Trieste il 26 aprile del 1925. Cresciuta a Vermegliano, una frazione di Ronchi dei Legionari, aveva cominciato a lavorare giovanissima presso i cantieri navali di Monfalcone. Qui, ribelle al rigore e all’educazione femminile tipica del fascismo, era rimasta conquistata dalle idee politiche diffuse, tra le altre, dai membri della famiglia Fontanot, che erano “mistri”, cioè maestri, capi operai esperti nel costruire le navi ma anche colti antifascisti, ritornati in patria solo dopo l’amnistia concessa da Mussolini nel 1935, e che abitano, come Ondina, a Ronchi dei Legionari.

«Attraverso chiacchierate e discussioni, cominciai ad interessarmi di problemi sociali e politici – racconta Ondina in una sua memoria –. Alcuni operai del cantiere e alcuni studenti militavano già allora nelle file clandestine dell’antifascismo e quasi tutti erano comunisti. Io mi sentii progressivamente attratta da questi compagni e infine cominciai a capire quanto eravamo incasermati».

Con il suo ardore di adolescente, Ondina sogna di essere “rapita” dai partigiani del Carso: «Allora, in queste terre erano già operanti alcuni gruppi partigiani sloveni e parecchi ragazzi di queste località si aggregarono a queste formazioni. I loro familiari dicevano di non saperne niente, che i loro ragazzi erano stati rapiti (ovviamente per cercar di evitare le rappresaglie fasciste nei loro confronti). Da parte nostra, eravamo entusiasti e dicevamo a chi ci raccontava queste cose di dar loro anche il nostro indirizzo per farci “rapire”».

Il 6 aprile del 1941, l’Italia invade la Jugoslavia e si annette sanguinosamente la cosiddetta Provincia di Lubiana. L’antifascismo sloveno dopo quei fatti diventa Resistenza. Ondina, giudicata adatta per qualità e volontà, è impiegata come staffetta: «Noi giovani eravamo schierati, avevamo deciso da che parte stare, avevamo un ideale forte, quello che inconsapevolmente ci aveva aiutati, che ci faceva essere straordinariamente felici! Un rigoglioso altruismo ci aveva uniti nella consapevolezza. Non era incoscienza ma entusiasmo.

Era un grande entusiasmo! Perché eravamo profondamente convinti, tutti, uomini e donne, di combattere per un mondo migliore. Resistenza, ostinatamente, ora e sempre, resistenza,» scriverà tanti anni dopo «perché è bello vivere liberi!».

L’impegno di Ondina le procura due arresti, l’ultimo dei quali si conclude con la sua deportazione ad Auschwitz. «Il 31 maggio del 1944 all’alba partimmo dalla stazione di Trieste; non dal solito binario, la gente non doveva vedere queste cose, ma dal binario dei silos, da dove partivano i treni merci. Difatti da quel momento tali eravamo considerati. Stavano partendo circa 200 pezzi e pezzi ci calcolarono da quel momento, ma noi non lo sapevamo ancora. Per cui credemmo di partire in 200 persone di cui 40 donne». Gli uomini furono deportati a Dachau e le donne ad Auschwitz.

All’arrivo, sull’avambraccio sinistro, le viene tatuato il numero 81.672. L’impatto è fortissimo, e quel luogo rimarrà per sempre impresso nella memoria di Ondina come il male assoluto, un luogo dove ogni suo ideale, compresa la solidarietà umana, viene negato, affogato dal “fango” di Auschwitz, che è fango fisico ma anche fango dell’anima che, nella sua esperienza, lascia galleggiare solo la malvagità umana. «Ricordo le selezioni. Mettevano in fila quelle da esaminare e il medico, a volte un semplice SS, ridistribuiva le persone in due file. Era chiaro quale era la fila da eliminare. Le donne destinate a quella fila non smaniavano né si disperavano, quasi tutte si incolonnavano come inebetite, in silenzio. E quel silenzio era più tremendo di qualunque pianto».

Ondina subisce la “selezione” quattro volte, e quattro volte riesce a superarla. Ma la cenere che viene giù dai camini, i reticolati di centinaia di metri, la sera pieni di persone e la mattina deserti, segneranno per sempre la sua anima: «Alla notte, avevi il riverbero sulle finestre delle enormi fiammate che si sprigionavano dai camini. Così, fu eliminato un intero campo di zingari, in una notte furono uccisi centinaia di nomadi!».

Poi, la speranza: nell’autunno di quell’anno, si sparge la voce che le prigioniere politiche sarebbero state trasferite in un altro campo, a Rawensbruck. Ondina ne è felice, pensa che più in basso di così non si può cadere: «Da qualche indiscrezione sapemmo che stavano lentamente evacuando il campo di Auschwitz perché il fronte sovietico stava avanzando e questo ci rese anche ottimiste. Uscendo dalla stazione, mi voltai e vidi l’infame portone con la scritta “Arbeit macht frei”. Bene, mi dissi, forse ora ce la faremo».

Fuori di lì, Ondina recupera pian piano la consapevolezza e la sua straordinaria forza di volontà. Impiegata, per le conoscenze tecniche acquisite nei cantieri di Monfalcone, in una fabbrica di produzione bellica, ad Eberswalde, vicino Berlino, riesce a boicottare il ciclo produttivo, rallentandolo grazie ai suoi continui e ripetuti controlli dei macchinari. Finché, finalmente, nell’aprile del 1945, durante una marcia forzata in cui viene usata come scudo umano contro i sovietici, Ondina riesce a fuggire.

Rientrerà a casa, a Trieste, solo a luglio, dopo aver percorso 1.300 chilometri attraverso mezza Europa. La sua vita in tempo di pace ricomincia davvero quando conosce Gianluigi Brusadin, e con lui crea una libreria, la prima agenzia degli Editori Riuniti e una famiglia.

ondina-peteaniOndina, a causa delle privazioni di Auschwitz, è divenuta sterile e allora adotta un figlio, Gianni. Diventa anche ostetrica e fa nascere tanti bambini, i bambini degli altri. Non solo, per loro inventa le prime colonie estive laiche, li porta in vacanza in Istria ma anche in visita alla DDR (Germania est).

Dopo il terremoto del Friuli del 1976 organizza una delle prime tendopoli a Maiano. Si impegna nel sindacato pensionati CGIL, promuovendo un patto fra le generazioni perché, come dice: «Se l’unità è la leva sulla quale fare forza, la saldatura tra le generazioni è fondamentale per realizzare una società nuova e respingere ogni forma di emarginazione e di isolamento».

Solo alla fine, nella vita di Ondina vissuta in perenne contrapposizione ad Auschwitz cominciano a mostrarsi delle fenditure. Di notte riemergono i fantasmi della prigionia, gli incubi, delira in tedesco e polacco, le lingue che dovevi conoscere al campo per sopravvivere. La sua situazione respiratoria già precaria si aggrava a causa di un tumore. È costretta a fermarsi. L’indebolimento scatena la depressione e con lei l’anoressia. Quando muore, il 3 gennaio del 2003, pesa quaranta chilogrammi, lo stesso peso che aveva uscita dal lager.

“È bello vivere liberi!”, racconta il figlio, sono state le sue ultime parole. Vale la pena scoprire la storia di questa donna italiana attraverso la bella biografia scritta da Anna Di Gianantonio e edita da Mursia, intitolata, non a caso, È bello vivere liberi.

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