Bassoli: è in crisi la società, non le ragioni della pace

Spirano forti venti di guerra mentre l’Italia continua a inviare armi nei luoghi di conflitto. Quale è il ruolo dei lavoratori per uscire dalla contraddizione? A colloquio con Sergio Bassoli, portavoce Rete della Pace e sindacalista Cgil
EPA/YAHYA ARHAB

Sergio Bassoli è il coordinatore e portavoce della Rete della Pace che riunisce diverse associazioni italiane (dalle Acli all’ Arci passando per l’Agesci, per fare qualche nome). Venerdì 7 aprile 2017 all’indomani dell’attacco missilistico lanciato dagli Stati Uniti contro le postazioni militari siriane controllate dal governo di Bashar Al Assad, la Rete ha immediatamente diramato un comunicato di condanna per un’azione che «conferma la irresponsabilità e l‘assenza di una strategia politica internazionale che circonda la crisi siriana».

Bassoli, esponente della Cgil nazionale, è intervenuto lo scorso 14 marzo all’incontro promosso dal Movimento dei Focolari in Parlamento a proposito della violazione della legge 185/90 che vieta la fornitura di armi italiane ai Paesi in guerra.

Con uno sguardo rivolto all’attualità di una situazione mondiale sempre più incerta, proponiamo un dialogo con Bassoli che rappresenta, da sindacalista, i lavoratori posti davanti al dilemma tra scelte di pace e produzione di armi.

Come facciamo, infatti, a chiedere di sospendere la costruzione e l’invio di bombe da Domusnovas, in Sardegna, se non proponiamo una diversa politica economica e industriale sul quel territorio? Alla fine, come è accaduto con l’azienda tedesca della Rwn, si cede la strategia agli investitori stranieri? Anche se poi la riconversione a uso bellico dell’azienda di bombe è stata finanziata dal fondo italiano per lo sviluppo.

Il sindacato deve restare incastrato nella contraddizione tra pace e lavoro? Quali spazi esistono per invertire la rotta e realisticamente con quali interlocutori credibili?

Certe operazioni “spregiudicate” si realizzano, non a caso,  in aree di marginalità economica e sociale, dove le possibilità di scelta sono tra emigrare, lasciare la propria terra e la propria identità, o lavorare a qualsiasi condizione e produrre qualsiasi cosa. La questione del “cosa si produce” è una decisione storicamente detenuta, gelosamente, in mano alla politica ed al mondo della finanza e dell’imprese, nonostante sia una questione di interesse collettivo che travalica l’aspetto economico e del profitto. Come e cosa produrre rappresenta il livello culturale, la responsabilità e l’etica di una società. Non può essere scaricato sul lavoratore questa responsabilità, propria di una intera società. Il sindacato ha un compito ed un ruolo complesso perché è chiamato a tutelare quel lavoratore ma nello stesso tempo non può perdere la dimensione e la visione dell’interesse generale, della collettività e dell’intero corpo sociale. Questa doppia responsabilità entra in crisi quando non si è in grado di formulare alternative a produzioni nocive, pericolose o distruttive, come quelle dell’industria bellica. È un dilemma che trova consenso e risposte nel campo teorico ma ostacoli e contraddizioni in certe realtà.

SiriaCosì se, alla fine, si smetterà di produrre bombe, ci rimetteranno solo i lavoratori?

 Nel caso specifico, è noto come il territorio del Sulcis sia stato abbandonato dopo l’epoca degli impianti siderurgici ed estrattivi, lasciando la popolazione di quel territorio al proprio destino. Un vuoto istituzionale, un’assenza di investimenti alternativi per promuovere forme di sviluppo locale sostenibile, riempito da nuove speculazioni e produzioni imbarazzanti. Per noi del sindacato la vera sfida è, quella, quella di rilanciare politiche di sviluppo sostenibili, ed un’economia di pace con le comunità locali, senza far pagare il conto a chi guadagna il pane con il sudore del proprio lavoro, ma con impegni e contrattazione che portino attraverso una transizione governata a quelle prodizioni sostenibili e di pace che una società responsabile deve imporsi.

In questo senso come si comprende il disegno della  “nuova Difesa europea” prevista dai recenti accordi di RoSiriama 2017?

Noi abbiamo sempre pensato che un sistema di difesa europeo fosse una ipotesi da percorrere e da sostenere, se orientato a una maggiore efficienza, ad una maggiore coordinazione, e con economie di scala che permettessero di ridurre il peso della spesa militare nazionale a favore di investimenti sul fronte degli investimenti produttivi, dei servizi e dell’istituzione di una difesa civile e nonviolenta su scala nazionale ed europea. Se, però, la direzione è quella di una difesa europea più costosa e più aggressiva, non ci siamo proprio. La politica securitaria serve solo agli interessi dell’industria bellica e non produce benessere alla comunità. Al contrario fomenta l’idea di insicurezza e toglie risorse allo sviluppo ed al sociale.

Non sarà che la crisi del cosiddetto pacifismo parte da questa intima contraddizione?

Il pacifismo non è un pensiero ed un modo di vivere astruso dal contesto e dalle contaminazioni di un determinato tempo e luogo. La nostra società è in crisi, le sue istituzioni sono in crisi, il modello di sviluppo è in crisi. I Paesi ricchi sono a crescita demografica negativa, i Paesi poveri invece hanno crescita demografica. Cosa significa che il futuro sarà dei poveri? Quasi un trentennio di politiche neoliberali ed una globalizzazione dominata dall’ideologia del libero mercato e dalla finanza speculativa hanno cambiato le nostre società, il nostro modo di vivere, le nostre speranze, le nostre aspettative e le nostre paure. Nell’era della società complessa i problemi si risolvono con nuovi problemi, in un intreccio di interessi e di contraddizioni che si sostengono gli uni con gli altri fino alla loro improvvisa esplosione.

 A cento anni dalla Grande guerra i lavoratori devono rompere ogni pretesa di internazionalismo (o modernamente di interdipendenza solidale) per cedere a ideologie predominanti?

Certo che no. Ma bisogna partire dal fatto che al pacifismo, sono venuti a cadere quei riferimenti politici ed ideali su cui ha potuto costruire la propria identità e forza di movimento di massa nel secolo scorso. Anziché incorporare la pace come un ideale fondante dell’agire politico, come è chiaramente espresso nella nostra Costituzione, la politica ha privilegiato l’agire pragmatico del pensiero egemonico del mercato, del profitto e della competizione. Il principio e l’ideale che racchiude la definizione di pace; solidarietà, accoglienza, condivisione, nonviolenza, mediazione e rispetto del diritto e rispetto delle diversità, sono come l’abito da festa, che si mette solamente in certe occasioni, per le cerimonie. Senza questo collegamento e osmosi con la politica, il pacifismo è tenuto in vita da dagli attivisti e da chi non s’arrende, ma è minoritario e non incide nella società e nelle decisioni. La crisi non è nel pacifismo ma è dentro la nostra società, ed è lì che dobbiamo lavorare, per contrastare una deriva da cui neppure la politica sa più come uscirne.

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