Arcangela e la mafia senza nome

Il 9 agosto del 2017 Luigi e Aurelio Luciani, due contadini, vengono uccisi, vittime innocenti, dalla criminalità garganica. L’impegno per ridare dignità alla propria terra. Tratto dalla rvista Città Nuova.

Una lunga fettuccia d’asfalto che si perde all’infinito sulla linea dell’orizzonte. Un baluginio di riflessi di luce che sfoca i contorni del brullo paesaggio. Il caldo è asfissiante, tocca i 40 gradi, nonostante siano solo le 10 del mattino del 9 agosto del 2017. La provinciale che conduce ad Apricena, in provincia di Foggia, è deserta. È una buona annata per Luigi e Aurelio Luciani. La raccolta degli ottimi pomodori nelle loro proprietà di San Marco in Lamis si è conclusa in anticipo e avrebbero potuto assecondare il desiderio delle mogli, Arcangela e Marianna, per trascorrere qualche giornata di vacanza al mare, ma anche quella mattina con il buio delle 5 si erano recati nei campi per rassodare il terreno smosso dopo la raccolta. Terminato il lavoro procedono lentamente con il loro Fiorino bianco sulla provinciale verso Apricena, sede dell’azienda agricola di famiglia. Non così una Ford C-Max con tre uomini incappucciati e armati che insegue a folle velocità un Maggiolone con a bordo due pregiudicati della criminalità locale. Prima una raffica di kalashnikov. Quindi, una seconda, di fucile calibro 12 e pistola 7,65. Una grandinata di piombo. Termina così la corsa della vita di Matteo De Palma e Mario Luciano Romito, boss del clan che porta il nome di quest’ultimo. Luigi e Aurelio odono il rumore degli spari e rallentano la marcia. Si trovano nel posto sbagliato nel momento sbagliato. In un attimo gli avvoltoi calano su di loro e li uccidono presso la vecchia stazione di San Marco in Lamis. I loro nomi si aggiungono alla lunga lista di vittime innocenti della mafia. Luigi, 47 anni, lascia Arcangela, con il figlio Antonio di neanche un anno. Aurelio, 43 anni, lascia Marianna, con due figli di 12 e 10 anni e una bambina in arrivo che non conoscerà mai il padre.

Arcangela, psicologa e insegnante di filosofia e scienze umane alle scuole superiori, è in vacanza al mare con il figlio. In spiaggia non riesce a parlare, si reca in casa e comincia la nostra conversazione telefonica.

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«Per me Luigi è un uomo eccezionale nella sua semplicità. Sereno, riflessivo, divertente. Posso dire che è la parte migliore di me. Soprattutto la sera lo aspetto. Come se rincasasse da un momento all’altro mentre penso a quale piatto preferito preparargli. Di lui parlo sempre al presente. Lo sento che è con me, percepisco la sua presenza, ma non lo vedo. In lui ho trovato la persona giusta che ti sostiene, la mia casa».

Dopo la mattanza Arcangela doveva scegliere cosa fare. «O chiudermi in casa a piangere, a strapparmi i capelli dal dolore e diventare una mummia, o uscire nelle strade, nelle piazze, a urlare cosa succede da noi per trascinare le persone. Non possiamo vivere nella paura. Quello che è successo a mio marito e a mio cognato poteva accadere a chiunque. Devo risvegliare la coscienza civile della mia gente».

Arcangela e Marianna sono diventate il simbolo di una rinascita possibile in un territorio che ha assistito a 360 omicidi negli ultimi 30 anni, l’80% dei quali è rimasto irrisolto. Insieme a San Marco in Lamis hanno contribuito a far nascere la prima sezione di Libera, associazione contro le mafie fondata da don Luigi Ciotti.

«In questi due anni senza Luigi ‒ continua Arcangela ‒ ho riletto la mia storia e ho compreso che dobbiamo essere uniti per cambiare le cose. Non si può aspettare in casa senza far niente. Non si può puntare il dito contro nessuno. Lamentarsi non ha senso e possiamo cambiare la realtà reagendo nel proprio piccolo, senza essere né eroi, né martiri». La paura della gente, la diffusa omertà si comprendono in un territorio del genere, «ma ‒ spiega Arcangela ‒ il muro dell’omertà non mi ha protetto. Per questo ho deciso di parlare chiaro e forte e di farlo crollare. È un muro che non serve a nulla. Bisogna, invece, collaborare tra di noi, con la giustizia, con le forze di polizia, con lo Stato. Le mafie si fanno forti del nostro silenzio».

Dovunque ha potuto in questi anni ha visitato il territorio, ha raccontato la sua storia perché tragedie del genere non accadano più a nessuno. Ha incontrato i familiari di altre vittime innocenti per condividere il dolore e la gioia, perché l’unità dà la forza di andare avanti.

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«Prima ero indifferente a ciò che accadeva nel territorio, come se non mi riguardasse. La mattina del 9 agosto la mafia è entrata in casa mia perché non guarda in faccia a nessuno. Ora do il mio contributo, anche per mio figlio, che il 7 settembre compirà 3 anni, anche se non avrei mai messo in conto nella mia vita che avrei passato il tempo a parlare della barbarie subita da mio marito. È questo il motivo più valido per restare nella mia terra. Fare un presidio contro la mafia soprattutto per le nuove generazioni perché possano essere incoraggiate a scegliere il bene e da che parte collocarsi nella società. Si tratta di decidere le sorti di noi cittadini. Di noi essere umani. Si tratta della nostra vita e di ridare dignità alla nostra terra».

La mafia garganica non ha un nome, si indica con il generico «mafia dei montanari», ma è del tutto differente dalla mafia foggiana, definita «quarta mafia», per distinguerla da Cosa nostra, la ‘ndrangheta e la Camorra.

Giuseppe Gatti, sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Bari, che da anni segue le inchieste sulla criminalità organizzata pugliese, intervenendo davanti ai colleghi della Sesta commissione del Consiglio superiore della magistratura, ha ben spiegato come si combatte questa mafia senza nome. «Io ho scoperto ‒ discorso riportato nel bel libro Ti mangio il cuore, di Carlo Bonini e Giuliano Foschini per i tipi di Feltrinelli ‒ che un’arma la abbiamo. Dobbiamo sviluppare il senso del “noi”, facendo rete. E di reti ne abbiamo tre. C’è la nostra rete, con la Direzione distrettuale antimafia e i colleghi della Procura di Foggia. Poi, abbiamo la rete interforze con la polizia giudiziaria, perché ormai, sempre di più, si lavora insieme, carabinieri e polizia con uno sguardo convergente. Poi, c’è la rete con i soggetti istituzionali e sociali. Con la Prefettura e l’associazionismo antiracket. È l’unica nota di speranza in questo mare desolato, però è significativa. Dobbiamo continuare a lavorare così, proprio nella consapevolezza che solo sviluppando il senso del “noi”, il senso della squadra, possiamo rompere l’isolamento, che è la vera forza vincente di questa mafia».

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